VENEZIA 65 – "The Burning Plain", di Guillermo Arriaga (Concorso)

The Burning Plain quasi stupisce per il suo quieto distacco dai personaggi, per l’oggettività della regia e il modo in cui le storie parzialmente sovrapposte vengono rappresentate. Ed è imperfetto proprio perché è il film di uno scrittore totale: non conta niente in fondo, se non la storia. E il gusto di raccontarla
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L’aveva in testa da quindici anni, Guillermo Arriaga, la storia di The Burning Plain (almeno, questo è quello che ha dichiarato alla stampa). Un esordio di cui la prima cosa che salta agli occhi è l’assenza di difetti di regia (merito anche di un eccezionale, pluripremiato cast tecnico messo insieme dall’autore), sotto la quale si cela una potente dialettica tra vita e arte, alla quale Arriaga trova una soluzione che rappresenta il più importante punto di forza del film. Arriaga, scrittore dei film di Iñarritu, ci ha in qualche modo abituati alle nidiate di prospettive temporali, agli incastri di flashback e alle intersezioni tra vicende e personaggi, affascinanti e inimmaginabili come gli incroci di Città del Messico. La trasposizione della sua scrittura in regia con film come 21 grammi e soprattutto Babel ci ha resi per certi versi prevenuti verso queste storie, pronti ad alzare le difese di fronte agli affreschi di dolore e sangue che sono le sue sceneggiature, una volta trasformate in immagini dal connazionale Iñarritu. E l’indimenticabile Le tre sepolture, diretto da Tommy Lee Jones (migliore sceneggiatura a Cannes nel 2005), ci ha mostrato l’onestà intellettuale di Arriaga: uno scrittore che rispetta la vita, segue l’istinto e accetta le contraddizioni umane. Lontano tanto dagli schemi della morale, quanto dalla volontà di consegnare messaggi più o meno espliciti al proprio pubblico. E lontano dal desiderio di manipolare il pubblico stesso, come un burattinaio che gioca ad ingabbiarlo nell’universalità delle emozioni: questo è il potenziale di Arriaga, e questo è quanto non si trova nella sua opera. The Burning Plain quasi stupisce per il suo quieto distacco dai
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personaggi, per l’oggettività della regia e il modo in cui le storie parzialmente sovrapposte vengono rappresentate. Ed è imperfetto proprio perché è il film di uno scrittore totale: non conta niente in fondo, se non la storia. E il gusto di raccontarla. Siamo da sempre in cerchio, o in ordinate file, davanti a qualcuno o qualcosa che racconta una storia. E per Arriaga il cinema è ora il gusto di allargare progressivamente la visuale, integrarla una tessera alla volta, smarrire e ritrovare il filo, annodare in punti diversi gli ingarbugliati fili delle umane separazioni spazio-temporali. Guardando con profondo rispetto e umana obiettività tutti i suoi personaggi (umanità che trabocca nel montaggio del finale ), senza mai perdere di vista il loro rapporto con lo sfondo silenzioso, il paesaggio – la fascinazione di due mondi che sembrano continuare ad osservarsi e spiarsi, nel deserto, sul confine tra Stati Uniti e Messico.
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