VENEZIA 65 – Dangkou (Plastic City), di Yu Lik-Wai (Concorso)
Così Kirin è diventato suo padre, ucciso in un sogno precedente: Yu Lik-Wai sogna al di là delle apparenze lo stesso cinema per i Padri e per i Figli – cambia lo sguardo ma restano gli occhi, come una trasmissione ereditaria, uno sguardo genetico. Per le leggi della fisica due corpi non possono occupare la stessa porzione di spazio nello stesso istante di tempo. Qualcuno lascerà il posto, e qualcun'altro lo prenderà. Non si discende dai propri padri, ci si sostituisce.
Sogniamo solo i sogni dei nostri padri: sogniamo solo i nostri padri (“ma perché abbiamo sempre bisogno di un padre?”). Kirin è il sogno di Yuda, Yuda è il sogno di Kirin. Il Padre, Yuda, sogna la vita del Figlio, un'ascesa al potere nel mondo del contrabbando illecito tra Cina e Brasile in cui i due svernano nei bassi ranghi. Kirin, il Figlio, quando sogna se stesso – vittorie eroiche contro le bande rivali sgominate a colpi di video-lame, l'amore di una go go dancer – sogna sempre suo padre, la sua mitologia: salvarlo dopo essere stato salvato, raggiungerlo, sostituirlo nel luogo della visione originaria (primaria?). Immerso in una giungla brasiliana così arcaica e magica da essere quasi una foresta boormaniana, Yuda diventa un eroe che si porta appresso l'essenza di un intero Popolo che da straniero si trasforma in indigeno, immolato nell'esplorazione di una landa sconosciuta e spesso ammaliatrice. Perennemente in movimento tra le strade del quartiere popolare di Liberdade, San Paolo, Kirin pare braccato da un Michael Mann che per una volta abbia per un attimo smarrito la propria ineffabile geometria a favore di un errare che accolga entrambi i significati del verbo. In realtà, l'apparente opposizione tra la prima e la seconda parte della pellicola non esiste: da Padre a Figlio, cambia lo sguardo ma restano gli occhi, come una trasmissione ereditaria – uno sguardo genetico. Se Kirin sogna in digitale, deliri lisergici su cieli al computer improvvisi e liberissimi come certi squarci mozzafiato del Miike Takashi di Dead Or Alive o Big-Bang Love: Juvenile-A, Yuda vive – e porta a vivere il bambino che poi crescerà come un figlio (“io non sono suo figlio, ma lui è mio padre”) – in un pianeta urbano dove l'ultimo scampolo di un classicismo dei padri si trasforma nelle premesse subito disattese di un gangster movie che viv(rebb)e tutto sulle spalle di Anthony Wong, che da solo incarna il fantasma di celluloide da disperdere nell'assoluta contemporaneità dei mondi di Yu Lik-Wai. Questo film, girato in Brasile da un hongkonghese, e interpretato in mille lingue da cinesi, brasiliani, giapponesi e taiwanesi, trova nel corpo e nello sguardo (ancora) dell'immenso attore di Exiled il perno centrale intorno a cui far ruotare i propri universi, e i propri pianeti: come un Atlante che regge tutto il cinema di Yu Lik-Wai, e le fonti di cui si nutre – ancora più che nel film di Emily Tang col quale potrebbe in apparenza spartire maggiori affinità estetiche, è in questa sua produzione che si ritrova di Jia Zhang-Ke tutta l'assoluta disperata