Dove la terra scotta, di Anthony Mann

Immensa opera-testamento del regista e canto del cigno di Gary Cooper in un western che privilegia i rapporti psicologici tra i personaggi e filma i tormenti esistenziali che degenerano nella follia

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Opera testamento di Anthony Mann e canto del cigno del grande Gary Cooper, Dove la terra scotta propone un brusco salto dalla dimensione della frontiera esteriore (fatta di paesaggi che strabordano dai limiti del Cinemascope), al raccoglimento interiore in un capannone primordiale dove rielaborare il lutto per una innocenza perduta.  Gary Cooper (già malato di tumore, si spegnerà tre anni dopo nel 1961 a soli 60 anni) con il suo tormentato Link Jones è la naturale evoluzione-involuzione dello James Stewart di Winchester ‘73 (1950), di Là dove scende il fiume (1952) e Lo sperone nudo (1953), con l’amara constatazione che, al di là della tragedia shakespeariana e dei richiami biblici, il moderno eroe “manniano” si trova a fare i i conti con un mondo folle e violento che tende a sopraffare i più deboli.

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Le prime scene del film mostrano il senso di disadattamento di Link Jones di fronte alla meraviglia tecnologica della locomotiva: spaventato dal fumo, fatica a prendere posto nella vettura, quasi rimanendo incastrato tra i sedili; cerca di eludere le domande del poliziotto, si nasconde sotto il cappello nero, i suoi occhi irrequieti scorgono sguardi sospetti ovunque. Questo stato paranoico riflette il repentino cambiamento di vita cui si è sottoposto Link: ha abbandonato lo zio psicopatico Dock Tobin (Lee J. Cobb) e i vecchi compagni fuorilegge con cui depredava banche e adesso fa il bravo cittadino americano che rischia la vita per mettere al sicuro i risparmi dei suoi compaesani. Nel frattempo è impegnato a difendere l’onore del baro Sam Beasley (Arthur O’Connell) e della cantante Billie Ellis (Julie London) compagni di viaggio che lo costringono, dopo una prima maldestra messa in scena, ad una assunzione di responsabilità. Anthony Mann disegna un personaggio memorabile che staziona in quella zona grigia in cui è difficile dare una definizione di sé stessi e del mondo: da un lato la voglia di tornare a fare esplodere il vecchio istinto bestiale che ha garantito la sopravvivenza, dall’altro la atroce consapevolezza che quell’istinto di sopraffazione porta in un territorio distante dall’umanità, in un isolamento morale e materiale che è il primo passo verso il dramma psicologico della propria scomparsa identitaria.

Come dice giustamente Franco La Polla in Sogno e Realtà Americana nel Cinema di Hollywood (Il Castoro, 2004) “Anthony Mann è l’artefice di una sorta di western da camera dove paradossalmente non manca la natura né il movimento del viaggio. Tutto è vivace e dinamico, solo i suoi personaggi sembrano non rendersene conto…il genere finisce nello spazio ristretto di una capanna, fra muri di legno entro i quali entro i quali i suoi protagonisti erano dopotutto sempre stati, incapaci di cogliere una bellezza che era davanti ai loro occhi”. Non è un caso che nelle scene degli interni il regista privilegi i toni scuri e i dialoghi protratti che spesso si trasformano in confessioni, in ammissioni di colpa. Questo tono intimo ma angosciato  è amplificato dall’uso delle lenti grandangolari e dalla profondità di campo, così da fare risaltare lo sfondo mantenendo nella inquadratura tutti i personaggi principali. Si pensi alla scena del “tetra-duello” nella quale quattro uomini si trovano su una unica traiettoria diagonale dello sparo; o anche alla scena della violenza psicologica sulla cantante Billie, costretta a spogliarsi sotto gli occhi di tutti, in un clima pesante e malato raffigurato con riprese diagonali che tendono a fare affiorare lo stato d’animo di ogni singolo individuo: il folle, il sadico, la vittima, il carnefice, il salvatore. La stessa violenza, spesso ipertrofizzata nei film di Mann, è qui accompagnata da una rappresentazione del dolore che divora letteralmente Link, sia che lo infligga o che lo subisca. Con questa particolare attenzione ai rapporti psicologici tra i personaggi e ai tormenti esistenziali che degenerano nella follia non è un caso che Anthony Mann sia stato un regista molto amato da colleghi come Jean Luc Godard (che gli tributò i giusti onori quando ancora tutta la critica lo snobbava) e da Martin Scorsese (che lo pone tra i suoi numi tutelari).

La consapevolezza di Link Jones-Gary Cooper si riflette sul personaggio femminile che è così ben delineato da fare risaltare meglio il dissidio interiore di due individui ostaggi del proprio passato, intrappolati dai loro sbagli: il paese mitico verso il quale si è diretti non può essere che una città morta, il luogo fantasma di un momento andato irrimediabilmente perduto. E la figura patriarcale di Dock Tobin è il simbolo stesso di un autorità che, trasformandosi in folle tirannia, viene disconosciuta e rimossa, spettro di un mondo ormai dissolto. Ultimo grande western di Anthony Mann che da lì a breve imboccherà il viale del tramonto con una serie di opere mastodontiche quanto trascurabili, Dove la terra scotta è un film personale e sincero che preannuncia la decadenza del genere attraverso il congedo definitivo del suo eroe protagonista, palesemente fuori spazio e fuori tempo, ma ancora in grado di rendersi conto di tale dissociazione.

Titolo originale: Man on the West
Regia: Anthony Mann
Interpreti: Gary Cooper, Julie London, Lee J. Cobb, Arthur O’Connell, Jack Lord, John Dehner
Durata: 100′
Origine: USA, 1958
Genere: western

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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