FILM IN TV – Il Vergine, di Jerzy Skolimowski

Il vergine, di Jerzy Skolimowski

Piuttosto che i dialoghi, infatti, è la conversazione prossemica tra il corpo di Jean-Pierre Léaud e la colonna sonora firmata da Krzysztof Komeda il cuore del film: una composizione jazz che a volte gioca d'anticipo sulle immagini, in altre sembra inseguire il suo protagonista e la sua ossessione, che trasforma la realtà circostante in un'avventura surreale. Domenica 22 febbraio, ore 03.35, Rai3

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Il vergine, di Jerzy SkolimowskiPotrebbe essere un film muto, Il vergine di Skolimowski. Per certi versi lo è, se si considera che delle tante cose cannibalizzate alla Nouvelle Vague, il regista polacco evita di cibarsi proprio del suono in presa diretta. D'altronde, lasciata la patria per il Belgio appositamente per girare questo film, Skolimowski non capisce una parola di francese.

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E allora ecco che il volto per eccellenza del cinema di Truffaut (da poco rubatogli dall'(ancora) amico Godard per Masculin Féminin), Jean-Pierre Léaud, viene dominato dal regista rinunciando alla comunicazione vocale, e si affida soltanto alla sua mimica facciale. Sarà per questo che, a conti fatti, non si può in realtà parlare di dominio del regista sull'attore: Léaud, nel fiore della sua giovinezza, offre qui la sua interpretazione più anarchica, un corpo convulso e inarrestabile che sembra dominare ogni frammento di spazio offerto all'inquadratura. Così come la traccia vocale, sincronizzata alle immagini in un secondo momento, scavalca sovente le labbra degli attori, così il corpo del protagonista Marc non conosce ostacoli, in ogni senso possibile. Il film si riduce alla sua spasmodica ricerca del giusto modello di Porsche per partecipare a una gara automobilistica, ed è solo la vitalità dell'attore a sorreggere l'inesistente trama. Piuttosto che i dialoghi, infatti, è la jean-pierre léaud in il vergineconversazione prossemica tra il corpo di Léaud e la colonna sonora firmata da Krzysztof Komeda il cuore del film, una composizione jazz che a volte gioca d'anticipo sulle immagini, in altre sembra dover inseguire il suo protagonista e la sua ossessione, che trasforma la realtà circostante in un'avventura surreale. Anche l'incontro con Michèle (una Catherine Duport anch'essa "presa in prestito" dal recente film di Godard, insieme al direttore della fotografia Willy Kurant) non distoglie Marc dal suo obiettivo principale, nonostante i suoi iniziali tentativi quasi suicidi di attirare la sua attenzione (fra tutti, lo stendersi in mezzo a una trafficata strada e rischiare di venire investito da un tram). Ma ciò che rende notevole la pellicola di Skolimowski, e che forse le valse l'Orso d'Oro a Berlino, è la sua capacità di perdere, man mano che si procede, la sua natura prettamente comica e spensierata, così distaccata dalla realtà, e rientrare in maniera impercettibile sulla corsia della serietà.

 

A ben vedere, Le départ (titolo originale ben più significativo della traduzione italiana), racconta di un ragazzo che intravede per la prima volta l'età adulta dopo un'adolescenza dipinta piuttosto come prolungamento dei suoi anni infantili. Le azioni compiute da Marc nel film non seguono una logica o una coscienza politica o sociale, e per questo il passaggio da un estremo all'altro genera uno scontro finale quasi insostenibile. La pellicola non può fare altro che bruciare, immobile su uno sguardo che non ha la forza, stavolta, di rivolgersi alla macchina da presa.

 

Titolo originale: Le départ
Regia: Jerzy Skolimowski
Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Catherine-Isabelle Duport, Jacqueline Bir
Origine: Belgio, 1967
Durata: 93'

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