HORROR & SF – House at the end of the street

house at the end of the street
Il film di Tonderai oscilla tra l’opera incompiuta e l’opera mai realizzata, sterilizzando i suoi punti di forza, convergendo unicamente su quello che sarebbe potuto essere il corpo attoriale più interessante visto negli ultimi anni nell’horror, quella Jennifer Lawrence che  sta affermando sempre di più la sua presenza spigolosa eppur gentile

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Postulando – anche se la dimostrabilità di tale proposizione è evidente – che l’horror sia il genere più sistematico e strutturato tra tutti quelli che compongono il canone cinematografico, si potrebbe di conseguenza assumere che uno degli elementi centrali della pratica artistica orrorifica sia la consapevolezza: consapevolezza storica, consapevolezza stilistica, consapevolezza spettatoriale. Si sentirebbe allora il bisogno di una nuova categoria teorico-estetica, che prosaicamente potremmo definire “intelligente” – film intelligente, produzione intelligente, regista intelligente. E di registi intelligenti le fila si ingrossano e si assottigliano continuamente, con alcuni – per ora – confermati punti fermi. Eli Roth è uno di questi, dal lancio dieci anni fa del torture porn con Cabin Fever e Hostel alla produzione del pov/mockumentary L’ultimo esorcismo, dalla scrittura di progetti come gli ancora inediti Aftershock e The Man with the Iron Fists alla regia del nuovo e atteso The Green Inferno. James Wan, poi, viene a ruota: dall’altra pietra angolare del torture porn che è Saw a Insidious, il regista malese/australiano ha traghettato il genere verso la nuova corrente che da tre, quattro anni si è spostata al centro delle produzioni statunitensi (e non solo), cioè quella delle ghost stories/haunted houses. I tre Paranormal Activity, Don’t Be Afraid of the Dark, Dream House, The Awakening, The Innkeepers, The Woman in Black, Sinister, solo per citare qualche titolo, sono l’avvisaglia oramai consolidata di uno shift che come sempre investe prima la produzione e la fruizione – la mano invisibile e velocissima del mercato? – e solo dopo arriva ad essere de-codificata, e quindi assunta o respinta. Un ritorno dentro spazi intimi, dentro gli interni, dentro, semplicemente, un tetto e quattro mura, una porzione di luogo dove i vampiri non possono irrompere senza avere il permesso di uno degli abitanti, dove risiedono lari e penati, dove il Chi può essere incanalato e direzionato – anche in TV: The Following, la serie di Kevin Williamson, è un continuo gioco di planimetrie delle case della East Coas…  

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House at the End of the Street: Sarah (Elisabeth Shue) e Elissa (Jennifer Lawrence), madre e figlia, si trasferiscono da Chicago in una cittadina vicina immersa nel verde, prendendo possesso di una bellissima casa affittata a poco. Il motivo di un così ridotto prezzo è presto avvistato: la proprietà confina con quella dei Jacobson, famiglia sterminata quattro anni prima dalla figlia più piccola in seguito scomparsa nei boschi. Unico sopravvissuto il fratello Ryan (Max Thieriot), tornato ad abitare nella casa natìa dove vive isolato e silenzioso rispetto alla cittadinanza che lo segue con preoccupazione e pregiudizi. Elissa, però, pian piano si avvicina a lui, osteggiata dalla madre che come tutti gli altri pensa che Ryan nasconda qualcosa… Annotiamo subito che è un regista inglese come Mark Tonderai a firmare dodici mesi fa questo lavoro (non distribuito qui da noi), ultimo di tutta una serie di nomi molto più altisonanti e profondi (Alexandre Aja, Edgar Wright, Nicholas Winding Refn…) che hanno compiuto il salto oceanico dall’Europa agli Usa, ribaltando la consueta aura “autoriale” del Vecchio Continente operando all’interno dei generi sia nella prima parte di carriera sia in seguito allo sbarco hollywoodiano (e non). Per Tonderai, però, la rigida griglia del sistema americano si è fatta sentire – nonostante la produzione dello studios migliore degli ultimi anni, FilmNation – imbrigliando in modo palese un regista che con il suo esordio, Hush (2008), fece ben sperare con un piccolo, esatto horror che svolgeva egregiamente il suo compito, portando avanti fino alla fine l’ottimo spunto iniziale intrattenendo ed emozionando.

Gli spasmi visivi del regista qua e là si avvertono – la scelta di girare in 2-perf Techniscope per ri-dare la granulosità e le chiazze dei ’60-’70, la mostrazione degli spazi ristretti, il lavoro sempre molto stretto sui corpi –, ma è lo script di David Loucka (su un’idea di Jonathan Mostow) che blocca e allontana il tutto. I problemi sono evidenti non soltanto nell’errata e fuorviante impostazione di base della pellicola che da una parte ammicca al primo Wes Craven e dall’altra parte per essere un horror e si rivela un thriller psicologico – strategy che comunque ha fatto pagare dazio, con incassi worldwide sui quaranta milioni di dollari, grazie anche ad un efficace e performante trailer in reverse –, quanto nell’effettiva resa di questa ibrida struttura, resa che è priva di attrito, scontro, scarto. Il diverso materiale a disposizione, infatti, non prende mai vita, portando ad una sorta di anestetizzazione che investe tutti i vari comparti della pellicola.
Rimane dubbio anche il discorso teorico sulla vicenda, con un doppio twist che di fatto annulla la progressione dei colpi di scena e della storia riportando il tutto al punto di inizio, rimarcando le basi di partenza e dunque vanificando l’esistenza stessa dell’evento orrorifico, del film stesso (il reietto è il reietto, la colpa è la colpa…). House at the End of the Street oscilla tra l’opera incompiuta e l’opera mai realizzata, sterilizzando i suoi punti di forza – appena accennato è il modello di azione della cittadina di fronte alla vicenda dei Jacobson, che consiste nell’acquistarne come municipalità la casa e demolirla per far si che non continui a far deprezzare il real estate del luogo (sistema vs leggende urbane) –, convergendo unicamente su quello che sarebbe potuto essere il corpo attoriale più interessante visto negli ultimi anni nell’horror, quella Jennifer Lawrence che film dopo film, personaggio dopo personaggio, sta affermando sempre di più la sua presenza spigolosa eppur gentile, risoluta eppur fragile. Le tracce che rimangono al suo passaggio sono di una figura completa, tangibile, perennemente marchiata da uno smoky eyes che cozza con il giallo e il grigio, con i capelli e le iridi, sempre in viaggio verso un futuro in continuo movimento, dove necessita lottare con la mente (Mr. Beaver, Il lato positivo) e il corpo (Un gelido inverno, Hunger Games).

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