HORROR & SF – Mars et Avril

mars et avril

Un jazz ammaliante, una nenia vibrante, un lento fluire di sensazioni nell'eterna danza tra immagine e suono: partendo da due graphic novels da lui stesso disegnate, Martin Villenueve ricrea un universo enigmatico dalla laboriosa cura per il dettaglio, per l'immagine divulgativa su schermi/pannelli sospesi tra i grattacieli di un nuovo sistema-mondo

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mars et avrilIn un tempo sospeso tra passato e futuro il jazzista Jacob Obus è il più grande musicista vivente. La sensuale fisionomia femminile fa da calco agli strumenti musicali che Arthur Spaak disegna e che suo padre, lo scienziato-filosofo parte uomo e parte ologramma Eugene, confeziona per Jacob.

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Partendo da due graphic novels da lui stesso disegnate, il canadese Martin Villeneuve (fratello del più conosciuto Denis) ricrea un universo enigmatico per quanto credibile e caratterizzato dalla laboriosa cura per il dettaglio, per l'immagine divulgativa su schermi/pannelli sospesi tra i grattacieli di un nuovo sistema-mondo cupo, affascinante ma mai spettacolarizzato nell'eccesso visivo ed effettistico (nonostante il regista si sia rivolto ad alcuni tra i massimi operatori del settore come il Carlos Monzon di Avatar), dando vita e anima ad una Montréal torbida, in cui le abitazioni appaiono come casse accatastate e il sole pare aver perso cittadinanza in funzione di un suo surrogato (Marte) che illumina le strade e gli edifici di un rosso smorto, soffocante, come filtrato da un’ingombrante patina di confusione. E in questo sfondo si muovono incerti i personaggi, inebriati dalla musica, dal jazz del trasognato Obus, il celebre musicista settantenne che non ha ancora mai avuto rapporti con una donna, occupato costantemente dalla sua arte, dai suoi ipnotici concerti subacquei. Ed è forse la sua purezza l'origine del suo talento: il delicato equilibrio viene infranto dall'affannosa Avril, una fotografa che ricerca il Nulla, la vita, la morte, l'amore. Avril utilizza un apparecchio fotografico obsoleto (oltreché un comunissimo inalatore per asmatici) che le serve per “fotografare la musica” (“per accogliere un nuovo linguaggio serve un vecchio medium/mezzo”, dice lei stessa) o per immortalare un monologo trasformando il mezzo fotografico in un confessionale dinnanzi al quale, nudi, confessare la propria identità, il proprio vissuto nel tentativo di carpirne l'essenza. Si serve dunque di un linguaggio quasi ecfrastico, nel tentativo di fissare sull'obiettivo l'avvicendarsi di secondi, minuti e ore nonché l'incalzare della musica. Proprio la musica, come la fotografia (e dunque l'arte), sospendono in qualche modo il tempo, lo dilatano rendendolo lento, dando modo di respirare meno affannosamente: la malattia (come l'asma di Avril) deriva dalla mancata sincronia tra corpo e anima rispetto all'incedere del tempo (e così solo la vicinanza ad Obus le permette di respirare pienamente).

 

Più pragmatico è Arthur (uno scapigliato Paul Ahmarani), il giovane artista che disegna gli strumenti per Obus: gli apparecchi musicali prendono forma dalle modelle cui l'artista chiede di posare. Ad essere trasposto è spesso un particolare, uno specifico tratto caratterizzante, come l'opulenza di busto e seni che comporta una rispettiva cadenza tonale, e lo strumento finisce sempre per assomigliare alla sua modella e se questa è robusta il suono sarà grave (il Gravofono). Vi è dunque una particolare attenzione al rapporto tra corpo e musica, rapporto che permea l'intera pellicola: il corpo necessita della musica per sopravvivere (respirare) e la musica, a sua volta, necessita del corpo per fuoriuscire (gli strumenti di Arthur). Ciò dà vita ad uno scambio continuo, a un infinito e tattile carteggio, a un tenero ed essenziale amplesso. Tuttavia le idee di Arthur sarebbero irrealizzabili senza l'apporto tecnico/scientifico di Eugene Spaak, suo padre nonché filosofo ossessionato da Marte, il quale temendo la vecchiaia (e la morte) è divenuto semi-virtuale, un intermittente ologramma di se stesso, un fantasma, il riflesso di un'esistenza. La libera rielaborazione di Eugene delle teorie di Keplero sul pianeta rosso parte dall’opera L'armonia del mondo, nella quale si determina la possibilità del movimento ritmico/tonale dei corpi celesti, e dunque la riconduzione dell'universo tutto a grande cassa di risonanza armonica all'interno della quale ogni pianeta o sistema interpreta determinate note, e l'essenza spirituale degli esseri viventi, cessato il loro ciclo vitale, è destinata a disperdersi nella musica (che è flusso perpetuo). Secondo Keplero (riletto da Eugene) “la realtà osservata dipende totalmente dall'osservatore” e in questa visione realtà e sogno possono confondersi senza tregua: le vibrazioni musicali destabilizzano la mente ritrasmettendo immagini mutate (per cui anche un vecchio musicista appare giovane) e fare un sogno è evento incredibile, inusuale, poiché oramai i due piani sono cosi ben impastati tra loro che ritrovarvi l'uno nitidamente nell'altro o viceversa pare impossibile (“il sogno è la porta d'accesso a tutto ciò che è impossibile”); e se la mente è come una navicella spaziale, una sonda in grado di condurre ovunque (anche all'interno del corpo di uno strumento su Marte), la realtà pone limiti all'immaginazione che in sé può ogni cosa, è un vincolo inibitore essenziale per non rischiare di perdersi nel precipizio delle possibilità.

 

La camera di Villenueve segue da molto vicino i personaggi, quasi proteggendoli, facendo scorgere la bellezza della rovina impressa tra le intercapedini stanche del volto di Obus (stanchezza inversamente proporzionale alla vigorosa freschezza della sua musica), dilatando i tempi e rinunciando alla spettacolarizzazione in funzione del tentativo di trasporre una vibrazione, un sussulto indotto da una melodia. Il risultato è un jazz ammaliante, una nenia vibrante, un lento fluire di sensazioni nell'eterna danza tra immagine e suono.

 

 

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