Asian Film Festival 2007 – "Foster Child", di Brillante Mendoza

Quinto lungometraggio di uno dei registi piu’ interessanti della new wave digitale filippina. Riporta alla memoria Lino Brocka: non e’ soltanto cinema di denuncia, dicotomico oppositore di vecchio/nuovo, e’ cinema di ambigua implosione, viscoso riverbero di esseri che ridono e piangono nella stessa immagine
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Quinto lungometraggio di uno dei registi piu’ interessanti della new wave digitale filippina, che ha cominciato la sua carriera come decoratore e autore di numerosi spot pubblicitari. Nel 2005 ha vinto il Pardo d’Oro a Locarno, nella sezione video, con l’esordio Masahista, film incentrato sulla vita di un massaggiatore. La storia di Foster Child e’ nata invece dalla sua esperienza personale: racconta di una famiglia povera di Manila, a cui i servizi sociali locali consegnano dei bambini abbandonati, prima che quest’ultimi vengano adottati ufficialmente dai ricchi occidentali. Mendoza segue e a volte sembra spiare i suoi personaggi, con la macchina a mano o fissa, e’ il protagonista aggiunto. Non e’ solo cinema di denuncia, dicotomico oppositore di vecchio/nuovo, tradizione/occidentalizzazione, e’ cinema di ambigua implosione, viscoso riverbero di esseri che ridono e piangono nella stessa immagine; e’ cinema della parola, del suo peso ideologico, ma anche del suo storico fallimento. Quando scorgi l’uso consapevole del campo-controcampo, cresce ancora piu’ forte la sensazione che Mendoza voglia invadere la pluralita’ di quelle voci e immagini costipate nel ghetto di Manila, rinunciando ad indicare semplicemente il passo e facendo sentire la sua presenza alla ricerca spasmodica del dialogo continuamente interrotto. Sembra diviso in due Foster Child: con una prima parte da video amatoriale per fissare i ricordi felici e una seconda parte dal taglio quasi documentaristico, in cui comincia ad avvicinarsi il momento del doloroso distacco tra il bambino e la donna allevatrice. Ritorna alla memoria il cinema del maestro filippino Lino Brocka. Quest’ultimo e Lav Diaz (dallo stile piu’ sperimentale di Mendoza) sono stati oggetto di una bellissima retrospettiva due anni fa al Festival di Torino. Come Brocka (morto in circostanze misteriose in un incidente alla fine degli anni Ottanta), Mendoza fa cinema reinventandolo per proprio conto, stretto dalla legge del guadagno immediato e il rischio di un confronto troppo brutale con il potere, che e’ quello soprattutto del denaro. C’è qualcosa di pasoliniano: l’invischiamento nella cultura “bassa”, l’emozione di fronte alla bellezza dei corpi, la volontà di sezionare il legame sociale di cui questi corpi sono l’emblema. Il cinema filippino va seguito con estremo interesse (a tal proposito, sarebbero da ricordare autori quali Raya Martin, Khavn, John Torres) perche’ ha la forza di mescolarsi spesso anche con l’ingenuita’ del cinema, con le sue linee piu’ didascaliche, ma al contempo, rifugge dalla tentazione di chiudersi ermeticamente,  raccontando la storia di un popolo solo attraverso i propri occhi.

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