BERLINALE 59 – "Yang Yang" di Yu-Chieh Cheng (Panorama)

Yang Yang di Yu-Chieh Cheng

Già autore del sorprendente Do Over, questo 31enne regista taiwanese racconta la storia di una ragazza eurasiatica in cerca della sua identità e dei suoi sentimenti, sospesa tra figure paterne e amori impossibili e immersa in una vita dominata dalla finzione. Un po’ come Olivier Assayas, Yu-Chieh Cheng si spinge del destino sentimentale della sua protagonista, la osserva a distanza ravvicinata, in piani serratissimi tutti girati con la macchina a mano, per meglio sentirne il respiro e le emozioni.

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Dal cinema come decoupage al cinema come pianosequenza: il tempo e la sua durata restano centrali, ma è sempre il cinema a disegnare le vite dei protagonisti di Yu-Chieh Cheng, trentunenne regista taiwanese, che aveva esordito nel 2006 con il sorprendente Do Over (lanciato dalla Settimana della Critica di Venezia) e che torna ora con Yang Yang, alla Berlinale 59 nella sezione Panorama (ma in Concorso avrebbe fatto la sua ottima figura). Potrebbe essere un melodramma negato, ma è soprattutto un dramma sul tema dell’identità e dell’essere amati, giocato sulla pelle di una adolescente (la Yang Yang del titolo) che vive a Taipei con la madre, il patrigno e la sorellastra, in una armonia fortemente voluta, destinata però a fare i conti con il suo essere in realtà un’euroasiatica, visto che il vero padre, mai conosciuto, è un fotografo francese… Sappiamo bene come il tema dell’identità storica e culturale di Formosa, sospesa sul rapporto con la “mainland” cinese,  sia una delle costanti che attraversano da sempre il cinema taiwanese (lo stesso Hou Hsiao Hsien se n’è fatto carico), mentre va rilevato come il confronto non solo culturale ma anche identitario con l’Occidente e l’Eurpoa in particolare stia diventando sempre più una tematica forte nel cinema asiatico delle ultime stagioni. Ma Yang Yang non si limita a questo, perché Yu-Chieh Cheng è regista che ha una sensibilità emotiva tutta particolare, sospesa sulla definizione della vita e della realtà attraverso lo sguardo e il suo valore relativo. Ecco dunque che la storia di questa ragazza eurasiatica diviene essenzialmente il dramma di una giovane donna destinata tradire se stessa nel segno dei suoi sentimenti, sospinta dalla vita in una dinamica di finzione assoluta.
Un po’ come il miglior Assayas, Yu-Chieh Cheng si spinge del destino sentimentale della sua protagonista, la osserva a distanza ravvicinata, in piani serratissimi tutti girati con la macchina a mano, a sentire il respiro dei suoi personaggi: Yang Yang corre sulla pista di atletica assieme alla sorellastra, il patrigno come coach, in una dinamica che il destino vuole di rivalità (è lei la più veloce!); per giunta il ragazzo della sorellastra s’innamora di lei e il cedimento di una volta diviene il motivo che la costringe ad abbandonare la sua vita – corsa, famiglia, tutto – per trovare una nuova definizione di

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sé: si affida ad un agente e diviene prima una modella poi un’attrice, grazie soprattutto al suo essere un’euroasiatica (che da quelle parti è una carta vincente mediatica). Cosa che lei rimuove (non ha mai voluto imparare il francese) per rimuovere l’abbandono da parte del suo vero padre, il cui sguardo l’ha fissata nello slancio di una corsa in pista, in una foto che il caso le ha fatto trovare in una esposizione. La finzione dunque si impossessa di lei, mentre lei cerca soprattutto di essere vera e di essere amata: né l’una né l’altra cosa le riescono, perché è costretta a fingere (per vivere, per lavorare) ed è costretta a sostenere solo un amore che non la completa davvero: facendo i conti con una serie di figure paterne (il vero padre, il patrigno, l’agente) e con innamoramenti che non puà sostenere.
Come in Do Over, anche in quetso suo secondo film Yu-Chieh Cheng elabora dunque l’immagine di personaggi che non trovano una propria definizione, incorniciando il tutto in un rapporto simbiotico con la messa in scena, col filmmaking in particolare, che diviene una sorta di tramite dell’esistere, una cornice che contiene il concetto stesso della vita. Molto “francese”, questo giovane regista taiwanese che vive in intimità il lavoro del set, affidandosi a un filmare in cui dà più spazio al momento trovato in scena che alla sceneggiatura e ai dialoghi scritti, contando sulla collaborazione dell’operatore Jake Pollock, lavorando in simbiosi affettiva con la sua interprete. C’è molta verità in questo film, ed è una verità tutta cinematografica, straordinariamente filmica, assolutamente visiva ed emotiva: merce rara di questi tempi, credeteci…

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    Un commento

    • non vedo l'ora di recuperarlo… già DO OVER era magnifico, poi il legame con il cinema dell'amato Assayas potrebbe farmi perdere il controllo del tutto!