VENEZIA 66 – "Dieci inverni", di Valerio Mieli (Controcampo italiano)

Presentata a Venezia nella sezione “Controcampo italiano”, l’opera prima di Valerio Mieli avrebbe tutte le carte in regole per essere un ottimo film. Il risultato finale tuttavia non è pari alle aspettative a causa di una regia poco ambiziosa e una sceneggiatura che a tratti si rifugia in soluzioni poco originali.

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Inseguirsi e perdersi. Ignorarsi e ritrovarsi per uno strano scherzo del destino. Lungo un percorso segnato dal perverso ripetersi dell’alternanza vicino-lontano e dall’attrito tra ciò che si desidera e ciò che si teme di ottenere, prende forma la vicenda dei protagonisti di Dieci inverni, opera prima del trentunenne regista Valerio Mieli.
Mai troppo vicini per unirsi definitivamente, ma neanche abbastanza lontani da potersi dimenticare, Camilla (Isabella Ragonese) e Silvestro (Michele Riondino) si rincorrono da Venezia a Mosca – e ritorno – sugli sfondi di città fredde e buie che riflettono la vena malinconica del loro animo.
Tutto inizia su un vaporetto veneziano nell’inverno del 1999, per caso. Un incontro fortuito tra due diciottenni che, in modi diversi, stanno tentando di dare un’impronta alla propria vita. Al momento dell’attracco su un'isoletta lagunare, Silvestro decide di inseguire Camilla per poi separarsene già al sorgere del sole dopo una casta notte trascorsa insieme a lei nello stesso letto. Estranei, conoscenti, coinquilini, amici. Su questa linea evolve il rapporto tra i due giovani per dieci lunghi anni; un rapporto giocato sul sottile filo di un amore corrisposto, mascherato, sofferto e mai apertamente dichiarato.
I presupposti per un buon film ci sono tutti: i germi di una storia d’amore per nulla scontata, personaggi interessanti, un’ambientazione molto ben costruita, e tuttavia si avvertono le note stonate di una regia semplicistica e poco ambiziosa affiancata ad una sceneggiatura che, lentamente, si rifugia in una serie di espedienti poco originali che, ahimè, caratterizzano tanta produzione nostrana. Se a tratti risuonano nelle orecchie dello spettatore attento gli echi lontani dell’ottimo Soldini de L’aria serena dell’ovest, c’è da dire però che Mieli non sfrutta fino in fondo, nè con la stessa efficacia dell’allora giovanissimo regista milanese, le venature amare del suo racconto e il destino crudele dei personaggi.
La vitalità della storia sfuma così tra le coltri di nebbia della scenografia (unica costante positiva del film) e lo spettatore viene abbandonato a sé stesso nella vuota attesa di un finale fin troppo presagito.
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