VENEZIA 66 – "Capitalism: a Love Story", di Michael Moore

Capitalism: a Love Story, di Michael Moore

Il cinema di Moore è sempre così fortemente e prepotentemente politico da far passare spesso inosservata la sua profonda capacità di raccontare le storie cinematograficamente. Nella sua spietata critica politico-sociale, fatta con nomi e cognomi e volti dei responsabili della crisi delle banche americane, colpisce il suo sguardo vero, appassionato e compassionevole, nei confronti delle “persone normali”, quelle che hanno perso tutto. Un cinema che non ha paura di porre le domande più difficili su come siamo diventati in questi trent’anni di “ideologia capitalista”.

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Capitalism: a Love Story, di Michael Moore“Non ci sono abbastanza salviette disinfettanti nel mondo per ripulire Washington. Questo film fa i nomi e attacca entrambi i partiti, senza paura o parzialità. Ogni discussione politica ha il difetto di scivolare sul piano dei liberal contro i conservatori e dei Democratici contro i Repubblicani. Ma questo è soltanto un modo di distrarre l’attenzione dal vero problema: il sistema in cui ci troviamo ha in mano entrambi i partiti…” così si esprime Michael Moore sulla situazione americana, che chisssà perché ci ricorda qualche altra realtà a noi un po’ più vicina… Ma oggi è impossibile tenere separate le conseguenze della crisi economica americana da quella nostrana, come di altri paesi.
E’ il punto di non ritorno della globalizzazione, vertice massimo della storia del Capitalismo come sistema economico dominante, ma probabilmente anche il momento in cui inevitabilmente scivolerà verso una sua sparizione, o trasformazione. Anche se Michael Moore è convinto che il sistema sia ormai irriformabile e andrebbe “sostituito” con qualcos altro.
Ma Capitalism, a Love Story, non è un film a tesi sulla crisi del capitalismo, piuttosto sembrerebbe un film “ad antitesi”, che prova a mettere in discussione l’Ideologia che attorno a questo sistema economico si è costruita, in America e in tutto il mondo, soprattutto negli ultimi trent’anni. E’ infatti dal 1980, l’anno dell’elezione di Reagan, che Moore vede al nascita di questo sistema brutale e antidemocratico, che ha portato nel giro di tre decenni l’1% della popolazione a possedere più del restante 99%. Il sistema dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri aumentano sempre di più, con la conseguente sparizione della Middle Class, un tempo il cuore/motore dell’economia e dell’American Way of Life.
E il cinema di Moore è sempre così fortemente e prepotentemente politico, da far passare spesso inosservata la sua profonda capacità di raccontare le storie cinematograficamente. Perché Moore è uno che fa cinema, e lo fa seriamente da vent’anni, dal suo meraviglioso esordio di Roger & Me, del 1989. E quello che colpisce lo spettatore, in Capitalism, a Love Story, non è soltanto la sua spietata critica politico-sociale, fatta con nomi e cognomi e volti dei responsabili della crisi delle banche americane, ma il suo sguardo vero, appassionato e compassionevole, nei confronti delle “persone normali”, quelle che hanno perso tutto, la casa, il marito (con tanto di assicurazione sulla vita destinata alle società e non ai familiari), il lavoro. I volti e i corpi di questi esseri umani rapiti dalla voracità del capitalismo aggressivo di questi anni restano impressi, come quel pianto a stento trattenuto del ragazzino che ha perso la madre di soli 26 anni, o l’uomo cui stanno portando via la casa. E’ se è tenero con le vittime è spietato con i "carnefici", Moore, che si arma della sua fortissima ironia per, simbolicamente, ricreare attorno alle sedi delle banche, il “luogo del delitto”, dove il crimine si è perpetrato in questi anni, con la sua richiesta di arrestare i manager e i banchieri responsabili. E’ duro nel raccontare – con interviste a parlamentari e brani del dibattito al Congresso –  il “golpe finanziario” fatto in parlamento a fine mandato Bush, con i miliardi di dollari elargiti alle banche in crisi, ma amorevole e commosso quando parla con la donna che ha perso il marito e persino l’assicurazione, con gli operai che hanno visto chiudere la fabbrica senza avere alcuna liquidazione. Ma non è un lamento il suo, è un grido di battaglia. Quello di “una persona, un voto”, noi siamo il 99% loro solo l’1%. E il film costruisce i suoi pezzi forti tra la battaglia parlamentare, le case occupate, la rivolta degli operai nella fabbrica chiusa fino all’elezione di Obama che ha ridato una nuova speranza. Moore trova materiali d’archivio rari e, a volte, straordinari, come il discorso di Roosveelt sui “Bill of Right”, magnifica carta dei diritti dei cittadini mai realizzata, e gioca con il termine “socialismo”,  con una divertente versione americana dell’Internazionale sui titoli di coda. Ma è maledettamente serio quando termina la sua lucida e necessaria pellicola, svincolando il principale pregiudizio ideologico di questi anni (messo già in crisi dal capitalismo cinese), ovvero che Capitalismo e Democrazia siano, in fondo, quasi dei sinonimi. E invece la Democrazia è un'alternativa (possibile) al Capitalismo, senza scomodare il Socialismo. Così semplice…
 
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