VENEZIA 66 – "Tehroun", di Nader Takmil Homayoun (Settimana internazionale della critica)

Con la volontà di innovazione che deriva direttamente dalle sue origini iraniane contaminate con una formazione professionale tutta parigina, Nader Takmil Homayoun regala alla Settimana internazionale della critica una pellicola di altissimo valore che scava nei bassifondi di Teheran per restituircene un’immagine cruda e de-medializzata

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È uno sguardo sull’Iran interno ed esterno contemporaneamente quello di Nader Takmil Homayoun. Interno perché le origini iraniane del regista non lasciano spazio ad equivoci sul suo coinvolgimento emotivo nella narrazione; esterno perché filtrato dalla distanza oggettivante di cui egli può godere vivendo in Francia e guardando al suo Paese da lontano. Ne risulta un possibile “nuovo cinema iraniano”, stilisticamente differente da quello che siamo abituati a vedere. Non ci si aspetti pertanto di trovare in Homayoun un nuovo Kiarostami, perché il percorso da lui intrapreso con questa sua prima opera di “finzione” (le virgolette sono d’obbligo) sembra volerlo condurre in tutt’altra direzione.
Il “mediorientalismo” dei media occidentali è tenuto fuori e, se c’è, preme ai margini dell’inquadratura senza mai guadagnarsi il diritto ad un posto nella diegesi. Via gli estremismi religiosi, via gli intrighi politici, via i difficili rapporti tra l’Iran e l’occidente che i quotidianamente ci vengono raccontati dai telegiornali. Non c’è niente di tutto questo nel film, e c’è tutto. Perché se non vediamo direttamente questi fatti in sé, ne scorgiamo le più immediate conseguenze. Via quella Tehran che costituisce la facciata ufficiale del Paese per fare spazio alla Tehroun – nome gergale della città – con la sua fatiscenza, la sua criminalità, la sua povertà e la sua sostanziale invivibilità.
In questi sobborghi nascosti della città risiede Ibrahim (Ali Ebdali), emigrato da un paesino del sud dove ha lasciato la moglie in attesa del primo figlio per cercare lavoro e fortuna nella capitale. Condivide gli spazi ristretti di una squallida abitazione con due coinquilini sventurati quanti lui e, come lui, costretti a vivere alla giornata, Fatah (Farzin Mohades) e Madjid (Missagh Zareh). Ha affittato anche un bambino Ibrahim, con lo scopo di impietosire i passanti nel suo quotidiano elemosinare. E gli eventi precipitano proprio quando il bambino viene rapito così che, come accade al Maggiorani di Ladri di biciclette, Ibrahim si ritrova improvvisamente privato del suo “principale strumento di lavoro” e con i debiti da saldare nei confronti dell’uomo che glielo aveva prestato. La necessità di sopravvivere e quella di nascondere alla moglie Zahara (Sara Bahrami), che nel frattempo lo ha raggiunto a Teheran, il suo reale stile di vita, Ibrahim è pronto a compromettersi seguendo Madjid in un giro di attività illecite. Il lato oscuro della società estende sempre più il suo raggio fino ad abbracciare tutti i protagonisti di questa tragedia moderna. Nessuno sarà risparmiato: non Madjid, che morirà nel corso di un furto d’auto, non Zahara che si sporcherà le mani in losche faccende pur di aiutare il marito a saldare i suoi debiti, e nemmeno lo stesso Ibrahim, che resterà vittima del suo desiderio di vendetta.
Una volta definito con documentaristica minuzia lo sfondo sociale sul quale intende lavorare, Homayoun inizia ad intessere un elaborato intreccio dai riflessi noir, amalgamando così bene i due piani della narrazione da non far risentire nessuno scricchiolio di rottura. Documentarismo al servizio della finzione – e viceversa – in un Paese che ha tanto da raccontare e continua a trovare di volta in volta il modo più giusto per farlo.
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