FESTIVAL DI ROMA 2009 – "Up in the Air", di Jason Reitman (Concorso)

up in the air
Mai come stavolta Reitman sembra determinato a raccontarci il presente, come fosse il work in progress di un’attesa dentro l’oblio di un mondo davvero sospeso up in the air, dalle coordinate geografiche nascoste, o, forse, da riscrivere completamente. Dentro la sua epoca, i suoi spazi, i suoi oggetti. E quindi anche fragile e attaccabile, certo. Ma vivo

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george clooney in Up in the airLa gente viene licenziata in America. I posti di lavoro cadono uno dopo l’altro lasciando uffici e poltrone vuote. Accade a Dallas, San Francisco, Detroit,  Milwakee, come recitano le didascalie sulle innumerevoli vedute aeree che accompagnano i viaggi dell’instancabile tagliatore di teste Ryan Bingham (George Clooney). Il compito di Bingham è infatti proprio quello di informare i dipendenti di compagnie prestigiose del loro irrimediabile licenziamento e di cercare, con le proprie capacità affabulatorie, di dare una speranza a costoro, “traghettando il loro dolore verso una possibile, nuova speranza”. All’interno di questa routine si inseriscono due donne: la giovane rampante Nathalie e la collega viaggiatrice Alex, interpretate rispettivamente dalle straordinarie (e complementari) Anna Kendrick e Vera Farmiga. Entrambe in modi diversi scorticheranno il sistema Bingham e i dogmi su cui si sostiene. Tratto dal romanzo di Walter Kirn, Up on the Air è un progetto che Reitman – coautore della sceneggiatura assieme Sheldon Turner – covava da diversi anni e che ha visto la realizzazione solo all’indomani della recente grave crisi economica americana. 
Lucidissimo ritratto disincantato e critico sull’America di oggi, dove a soverchiare ogni forma di rapporto economico, sociale e culturale c’è la frattura inconciliabile tra mondi diversi: ricchi-poveri, felici-infelici, vita di coppia-vita da single, cinici-idealisti, e così via attraversando città, paesaggi e famiglie di un paese irrimediabilmente diviso in due. In questa netta dicotomia il cinema democratico di Jason Reitman cerca di trovare esso stesso uno spazio tra l’indipendenza e il classicismo, alla ricerca di una formula d’equilibrio forse ancora troppo attenta alle carinerie della “confezione chiusa” e vagamente cerchiobottista. È lo stesso equilibrio vanamente cercato dal protagonista continuamente sospeso tra cielo e terra, in un limbo astratto e senza pause, fatto di tessere collezionate, luccicanti carte di credito, punti viaggio, agili trolley da riempire e svuotare. Quello di Clooney è forse uno dei ruoli più amari e disperati interpretati dall’attore. L’umanesimo del giovane regista statunitense ci pare sempre più prossimo a quello di due grandi registi del cinema americano degli ultimi trent’anni: Mike Nichols (da cui eredita certo spirito progressista) e Lawrence Kasdan (del quale possiede la medesima sensibilità narrativa e psicologica). E, nonostante si cerchi in ogni modo di storcere il naso di fronte alle abilità dell’autore, non possiamo non alzare le braccia in segno di resa ammirata di fronte alla densità del cinema di Jason Reitman. Alla sua fiducia nella capacità del cinema di raccontare l’uomo contemporaneo. Dopo l’anticonformismo di Thank You for Smoking e l’exploit hollywoodiano di Juno, questo Up in the Air rischierebbe quasi di recitare il ruolo del film di transizione, dell’episodio minore della trilogia, se non che mai come stavolta Reitman sembra determinato a raccontarci il presente, come fosse il work in progress di un’attesa dentro l’oblio di un mondo davvero sospeso up in the air, dalle coordinate geografiche nascoste, o, forse, da riscrivere completamente. Dentro la sua epoca, i suoi spazi, i suoi oggetti. E quindi anche fragile e attaccabile, certo. Ma vivo.
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