SPECIALE "NEMICO PUBBLICO" – See you, John Dillinger

nemico pubblico

John Dillinger non è un uomo in carne e ossa. E’ un’idea, un’immagine. E’quel sogno di libertà che scandisce il battito del cuore della nazione e che attraversa tutto il cinema di Mann. E’ l’ansia di uno spazio fuori controllo, quel desiderio che percuote il mondo come la luce. Un fantasma che è già puro cinema

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nemico pubblicoOh, I’ll break them down, no mercy shown
Heaven knows, it’s got to be this time,
Avenues all lined with trees,
Picture me and then you start watching,
Watching forever, forever,
Watching love grow, forever,
Letting me know, forever
(JOY DIVISION, Ceremony)
 
 
John Dillinger, Baby Face Nelson, Alvin Karpis, Pretty Boy Floyd. Ecco gli (anti)eroi dell’ultima grande mitologia americana. L’epoca d’oro della malavita tra gli anni ruggenti e la grande depressione, amore, piombo e furore nelle notti buie di Chicago. Wanted. Ricercati, ufficialmente immortali. Questi nomi, appesi al muro, fanno il paio con quelli dei fratelli James, di Billy the Kid e Pat Garrett, Butch Cassidy e Sundance Kid, gli uomini veri dell’altra grande epopea del nuovo continente, le prima e decisiva. I gangster e il western. Due saghe che hanno la stessa radice e lo stesso sacrario. Entrambe scritte dal cinema tra le righe della storia, per raccontare la lotta tra l’ordine e l’anarchia violenta e folle e libera delle vite disperate. Eppure, tra l’una e l’altra epopea, qualcosa è cambiato. I cavalli non corrono più al galoppo per sentieri selvaggi, il rombo dei motori copre il silenzio della prateria infinita, l’asfalto delle strade taglia in due la linea dell’orizzonte. Il passato del west è ormai alle spalle e gli uomini veri hanno già in segreto lasciato l’America sola a se stessa. Qualcuno resta, ma ha sbagliato a declinare il tempo. Il presente è un’altra cosa e il cinema stavolta lo racconta in presa diretta, come una cronaca non ancora o irrimediabilmente già leggenda. Perché non si tratta più di cantare il mito della fondazione, ma di scorgere, nel suo farsi, il senso di questa lotta senza più codici né onore. I metodi del sistema per combattere la propria battaglia in nome della società non tollerano altre sfide all’O.K. Corral. I G-Men non possono permettersi di essere come Wyatt Earp e affrontare il nemico a viso aperto. Il duello diventa un agguato ad armi impari.
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nemico pubblicoIl cinema ha già raccontato tutto. John Milius ha visto Dillinger morire (1973), Don Siegel ha incontrato Baby Face Nelson (Faccia d’angelo, 1957), qualcun altro ha raccontato Pretty Boy (Sparate a vista, 1960, di Herbert J. Leder) o Karpis (The F.B.I. Versus Alvin Karpis, Public Enemy Number One, 1974, di Marvin Chomsky). Per non parlare di Bonnie e Clyde. E ora Michael Mann ritrova tutti i public enemies, come in una suprema declinazione di tutti i gangster possibili. Ai suoi occhi abbagliati e abbaglianti Baby Face Nelson (Stephen Graham) è uno spaccone folle, lo sbruffone, colui che, forse, più assomiglia a quel prototipo del gangster che il cinema ci ha tramandato. Il bandito alla James Cagney…e infatti, nella notte fatale di Little Bohemia, tra i fumi dell’alcool, importuna una coppia: “volete vedere l’imitazione di James Cagney?”. Alvin Karpis (Giovanni Rabisi), invece, è il bandito freddo e spietato, il calcolatore meccanico della morte, probabilmente il più misterioso di tutti. Non è un caso che nella realtà Karpis sia stato l’unico a non cadere per mano della polizia, l’ultimo a morire, nel 1979, forse suicida, dopo venticinque anni passati a marcire ad Alcatraz. Ma Mann non può che scegliere Dillinger come protagonista. E i motivi sono evidenti, semplici come un colpo di pistola. Tutti. Il più concreto: Dillinger è stato il nemico pubblico numero uno ancor prima di Baby Face Nelson e Alvin Karpis, il gangster che più di ogni altro ha colpito l’immaginario e che prima di tutti è entrato nella leggenda. Ma è semplice anche il motivo più romantico. Dillinger muore davanti a un cinema, preso di sorpresa dopo la proiezione di Manhattan Melodrama (Le due strade) di W.S. Van Dyke. Dal punto di vista di chi pensa che il cinema sia tutto, non può essere cosa da poco conto. Fuori dal cinema si muore. E Dillinger non è un uomo in carne ed ossa. Alla fine dei conti non interessa chi sia nella realtà. E’ un’idea, un’immagine. O meglio un’idea che si fa carne e un corpo che si fa immagine. Dillinger è quel sogno di libertà che scandisce il battito del cuore della nazione e che attraversa tutto il cinema di Mann, almeno da L’ultimo dei Mohicani in poi. E’ l’ansia di uno spazio fuori nemico pubblicocontrollo, quel desiderio che percuote il mondo come la luce, anche se prima o poi s’infrange sulla pista di un aeroporto o in un vagone vuoto della metropolitana. “E tu dove sei diretto?” chiede Billie. “Ovunque io desideri”. Dillinger dà agli altri la percezione di un’altra vita possibile, quella che essi sognano, lontana dalle miserie della quotidianità. Fuori dalla crisi, o forse perennemente e meravigliosamente dentro la crisi. E Mann come nessun altro sa cogliere l’essenza iconica del suo personaggio. “Cosa vuoi che ci importi della gente?” chiede Karpis. “A me interessa, io mi nascondo tra la gente”. E la gente lo accoglie come una star, i giornalisti gli si accalcano intorno. John Dillinger è un’immagine. Anche perché non appartiene a questo strano mondo in cui viviamo, fondato sull’angoscia di una progettualità razionale, sul futuro. Dillinger guarda solo al presente e, quindi, è un uomo del passato. Magnifico paradosso. “E tu cosa vuoi? – Tutto…adesso”. Parole di un fantasma che è puro cinema. Invisibile. Il suo corpo è irriconoscibile. Al cinema ci si volta a destra e sinistra, ma lui è là, immobile, al sicuro. Sfugge alla cattura e si aggira indisturbato tra le stanze della polizia. Ferma un colpo di pistola con lo sguardo. Come una meraviglia, un’apparizione miracolosa. Almeno finché non
arriva la Storia a riunire d’un tratto i corpi e i fantasmi. Perché, nella realtà, la libertà non può sopravvivere alla morte. Occorre fare i conti con la nostra caducità. E’ l’eterna lotta tra la materia e lo spirito. E Mann accoglie a pieno la sfida, con quel suo cinema all’apparenza così materico, che fa “pesare” e risuonare il fuoco dell’armi, il tonfo sordo delle pallottole, che filma il desiderio, la divorante concretezza delle passioni e sta sui corpi. Ma è solo un (altro) abbaglio. E’ sempre e solo questioni di abbagli. Mann non sta sui corpi, sulle cose. Ancor più che in Miami Vice, punta gli occhi sulla superficie, sulla pelle, sui vetri, sulle carrozzerie, sugli smalti cromati, alla ricerca di un riflesso, di quell’altra immagine che le cose contengono in sé e rimandano. Il suo sguardo sembra inquadrare un auto, ma sta cercando i rami degli alberi, la neve sul ciglio delle strade. Confonde la materia in scie e riverberi di luce e ridisegna il mondo in uno stupore digitale che assomiglia all’esplosione di una pittura impressionista. E’ vero. Per quanto ci si sforzi, i corpi non riflettono. Per questo sono condannati a morire. Hanno un pesantezza, un’opacità che si confonde con quella delle cose. Come nella splendida immagine ‘di chiusura’ in cui Billie è schiacciata contro la parete, in un angolo e sembra un elemento, un disegno della tappezzeria. Ineluttabilità della fine e del dolore. Ma per Mann il cinema vibra sempre e, caparbio, ne insegue l’altro limite: quel suo punto verticale di non ritorno, in cui si coglie, come mai altrove, il luccicare del mondo e la trasfigurazione della materia in idea. Dillinger è morto prima di Babe Face e Pretty Boy? Che importa. Dillinger è un’idea e la libertà è un’immagine che sfugge alle linee rette della Storia. Solo fuori dal cinema si muore. Fuori da quella porta che sembra chiudersi alle nostre spalle. Ma proviamo a rimanere dentro ancora. See you, John Dillinger. Proviamo a (ri)vivere guardando. Guardando per sempre. Guardando l’amore che cresce. Per sempre.     
 
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    4 commenti

    • Questo film è un capolavoro straordinario, non avrei mai pensato che fosse possibile girare un gangster movie in digitale senza quasi accorgersi della differenza. Le scene d'azione hanno il tocco di Mann al 100% così come l'interesse che il regista nutre per i personaggi secondari, a cui bastano pochi momenti per fissarsi nell'immaginario. Altro che Haneke e Von trier qusto è davvero CINEMA.

    • questo film e' il pacco piu' grosso degli ultimi anni: blasonato, e' di un banale cosi' ridicolo che non credevo che avessero speso dei soldi per girarlo.<br />Dialoghi da serial televisivo, personaggi abbozzati escluso il protagonista che sembra un genio compreso solo per il primo tempo.<br />Se questo e' cinema allora Sergio Leone erano bracce rubate all'ippica.

    • meraviglia ma che film hai visto?

    • "dialoghi da serial televisivo"… mi sa che il nostro amico meraviglia non li vede i serial televisivi, perche' oggi questi hanno dei dialoghi fantastici, molto superiori alla media dei film/cinema. Se i dialoghi sono da serial televisivo, al pubblico non resta che accorrere a vederlo subito!