SPECIALE "NEMICO PUBBLICO" – "Su Jedgar, confessa. Qual è la tua squadra?"

Sullo sfondo dell'ultimo film di Michael Mann, si aggira il fantasma di J. Edgar Hoover, il fondatore dell'FBI. Mentre gli eroi John Dillinger e Melvin Purvis si sfidano l'uno contro l'altro, lui resta nell'ombra, affetto dall'apparente impotenza che gli preclude la condizione di protagonista. Invece, il talento di Hoover è proprio quello di mandare avanti gli altri per realizzare i suoi scopi: il segreto dell'esercizio del comando.

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– Ma cosa ne dice il nostro amico federale, il nostro G-Man? G sta per Giants? Su Jedgar, confessa. Qual è la tua squadra?

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J. Edgar. Frank a volte lo chiama Jedgar e al Direttore il nome piace sebbene non lo dia a vedere – è medioevale, principesco, fosco e scaltro.

Sulla faccia di Hoover striscia l’ombra di un sorriso.

– Non ho un interesse vincolante. Chiunque vinca, – dice a bassa voce. – Quella è la mia squadra.

Sta pensando a tutt’altro. A come i nostri alleati, uno dopo l’altro, accoglieranno la notizia della bomba sovietica. Il pensiero è cupamente confortante.

(Don DeLillo, Underworld, 1997)

 

E’ noto che la storia non la fanno sempre – anzi, non la fanno quasi mai – gli uomini che l’opinione pubblica percepisce come protagonisti. Nell'Iliade – uno dei racconti epici per definizione – l’unico vero vincitore della guerra di Troia è Agamennone, che si distingue molto di più per l’abilità nelle sottigliezze del comando che non per il coraggio in battaglia: è una figura marginale, relegata fuori campo da eroi come Achille e Aiace, o dall’umanità già sconfitta di Ettore, il loro rivale. Nel cinema americano, l’inattività è tradizionalmente proibita a chiunque volesse ambire ad essere uno dei personaggi principali. In Nemico pubblico, la figura di John Edgar Hoover (resa in maniera formidabile da Billy Crudup, il Dr Manhattan dei Watchmen)  è quasi esemplare di questa apparente frustrazione nel momento in cui la commissione del Senato gli rifiuta i fondi per ampliare il suo Bureau of Investigation: con grande risentimento, il presidente gli chiede quanti arresti abbia compiuto sul campo, e Hoover risponde candidamente che non ne ha mai fatto nessuno, che il suo mestiere non è quello di essere nel vivo delle operazioni, ma quello di esercitare l’autorità. E’ un’ammissione che gli toglie di fatto quello che dovrebbe essere pertinente di ogni eroe: l’azione vera e propria, l’idea di fare qualcosa, di assumersi la responsabilità di una sfida. Per un istante, Hoover sembra ancora più impotente di Melvin Purvis, l’uomo che non riuscì ad uccidere John Dillinger (uno straordinario Christian Bale, abituato ad essere nell’ombra anche quando dovrebbe essere al centro della scena). E’ appunto un fugace momento, perché gli uomini come Hoover non conoscono la sconfitta: anzi, usano a piacimento gli apparenti protagonisti per raggiungere i propri scopi: non sono né il gangster né l'investigatore ad aver cambiato per sempre la storia degli Stati Uniti, ma J. Edgar Hoover, l’uomo che nell’ombra li muove come più gli conviene. In Underworld, il romanziere Don DeLillo ne fa una colorita descrizione, mentre nel vecchio Polo Grounds di New York si sta consumando il dramma dei Brooklyn Dodgers e in qualche sperduto posto dell’Unione Sovietica i comunisti hanno fatto scoppiare la loro prima bomba atomica. Il pubblico si concentra sulla tragedia sportiva del lanciatore Ralph Branca e sul conseguente trionfo di Bobby Thompson degli Giants, il comico Jackie Gleason vomita sulle scarpe di Frank Sinatra e Hoover – completamente distaccato – si concentra sulle pagine di una rivista che gli è caduta dalle tribune: Il trionfo della morte di Pieter Bruegel. Il giovane Cotter  Martin – l’afroamericano che ha evitato la scuola per vedere la partita – si affanna a litigarsi la palla finita tra le tribune dopo il celebre home-run, con l’idea di potersi portare dietro un pezzo della storia, la stessa che Hoover sta già scrivendo, l’unico che in tutta la confusione di una finale di baseball riesce a fissarsi impassibile e affascinato sulla visione di un futuro funereo, su uno scenario già post-atomico. Il talento degli uomini come lui è quello di restare in disparte, di mandare avanti gli altri fino a quando gli sono utili: Nemico pubblico non ne parla, ma Hoover non ha solo ucciso John Dillinger, ma anche Melvin Purvis: lo costrinse a lasciare il neonato FBI perché preoccupato per la sua eccessiva popolarità, per il terrore che gli togliesse il comando, o forse solo il piacere di essere l'unico ad avere accesso – tramite testimonianze, torture, ricatti, arresti illegali, intercettazioni – a tutti i segreti della storia americana. Come capo dell’FBI (dalla fondazione nel 1935 fino alla sua morte nel 1972), Hoover è stato forse l'uomo che ha goduto dei più ampi poteri nella storia della nazione, ha comandato un servizio segreto deviato come il COINTELPRO (che ha schedato migliaia di persone sospettate di reati d’opinione, e cercava di infiltrarsi nei movimenti studenteschi e in quelli per i diritti civili) e ha soprattutto guidato le indagini di quello che è il più grande mistero di tutta la giovane epopea degli Stati Uniti: l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. A differenza di Richard Nixon – con il quale condivideva l'insicurezza e la paranoia legata all'aspetto fisico: si riteneva troppo basso rispetto agli altri – non è però diventato l’immagine simbolo del lato oscuro del suo paese, sebbene ne abbia attraversato ed indirizzato le vicende per quattro decenni, a capo del servizio di polizia (politica) più efficiente e avanzato del mondo. Hoover fu ancora più intelligente di Agamennone: sebbene gli siano stati attribuiti dei rumorosi flirt omosessuali con il suo successore Clyde Tolson e un love affair con l’attrice Dorothy Lamour, il capo dell’FBI non si è mai sposato, forse con il timore di trovare la sua personale ed infida Clitemnestra al ritorno nella sua Argo. Il suo è il segreto di restare in disparte: meglio essere personaggi per mezzo secolo, che eroi per due ore.

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