BERLINALE 60 – "Indigène d’Eurasie", di Sharunas Bartas (Forum)

bartas a berlino
Bartas è forse una meteora o prabilmente sogno liquido di vita pulsante e poeticamente desolante. Attraverso un mirabile noir, tra Parigi, Vilnius, Mosca, è “macchinoso” e quindi ancora puramente cinematografico, calato al centro dello spazio, operatore e attore allo stesso tempo, distaccato e, contemporaneamente, invischiato nella materia trattata. Vorrebbe magari vivere e lavorare nel suo mondo/cinema “brado” e chiedere una casa/laboratorio dove poter ripensare alla verifica (mai) certa del suo sguardo

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indigène d'eurasieDinanzi a certi autori verrebbe spontaneo ipotizzare quanto sia difficile raccontare il cinema, magari a volte sarebbe possibile solo descriverlo. Niente di più lontano dalla verità: Bartas è pura percezione che gli occhi non smettono mai di condensare. Lituano di nascita, è quel che si dice un apolide del cinema. L’ultima pellicola è girata tra Parigi, Vilnius, Mosca, in macchina, in treno, lottando con la natura. La fuga diventa un viaggio che si trasforma in un conflitto inevitabile con l’ambiente, perché non può essere pensato e costruito secondo i propri desideri. Cinema “patografico”, scolpito dal tempo e dai sentimenti più reconditi. In una sorta di noir, Bartas non regala niente. Anche un bacio, una carezza, un pensiero espresso, arrivano dopo lunghi sacrifici, estenuanti sottrazioni estetiche. Resta la poesia, la cinica consapevolezza dello sguardo che non smette mai di fagocitare i minuti che restano alla tragedia. Bartas catapulta la visione in uno spazio uniforme (non importa se aperto o chiuso) dove la lingua parlata si fa letteralmente incomprensibile, ma assolutamente primordiale. Ancora a filmare il salto delle coordinate: non si parla di incontri, distacchi, relazioni. Piuttosto è il disperato tentativo di aggrapparsi a qualcuno o qualcosa. Immagine del vuoto nel non compiacimento per l’assenza di un miserabile quanto agognato abbandono. La storia parte con la voce fuori campo del protagonista (lo stesso Bartas) che parla di giorni in cui enormi cambiamenti sconvolgono la Russia, gli stati baltici e l’Europa occidentale. Genia, non ha una casa, è sempre in viaggio facendo affari con la mafia russa. Costretto a lasciare la Lituania scappa a Mosca, nella speranza di recuperare almeno una parte dei suoi soldi. Contemporaneamente combatte sentimentalmente tra la sua fidanzata francese e Sasha, una prostituta della capitale russa. All’improvviso diventerà preda di una caccia all’uomo e tenterà di sopravvivere in ogni modo. Superando la frontiera con documenti falsi, raggiungerà ancora una volta un piccolo villaggio della Francia, dove però si accorgerà di non aver fatto tutti i conti con il passato. Bartas rappresenta paradossalmente il futuro del cinema, vive spesso isolato dal mondo, lavora con mezzi di fortuna, scrive due pagine di sceneggiatura e questa volta pare aver trovato anche una maggiore compattezza filmica. Bartas è sempre “macchinoso” e quindi ancora puramente cinematografico, calato al centro dello spazio da rappresentare, operatore e attore allo stesso tempo, distaccato e, contemporaneamente, coinvolto nella materia trattata. Vorrebbe forse vivere e lavorare nel suo mondo/cinema “brado” e chiedere una casa/laboratorio dove poter ripensare alla verifica (mai) certa del suo sguardo. Sguardo che si fa pianto isterico ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta. Liquida i suoi e nostri sogni in vita pulsante e poeticamante desolante.
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