DOCUMENTARIO – Il di più di realtà. Sul cinema di Roberto Minervini

roberto minervini

Regista marchigiano trapiantato in Texas, come Frammartino raccoglie in modo personale la sfida lanciata dall’espressione di Deleuze. E, soprattutto in film come Low Tide e Stop the Pounding Hearth lavora sulle tracce disperse di una sacralità del mondo, perduta, confusa, nascosta e sulla soglia tra messa in scena e scarti reali, gesti catturati o previsti

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roberto minerviniContrapponendosi a Bazin, da cui però prendeva le mosse, Deleuze apriva la sua riflessione sul Neorealismo in Immagine-tempo affermando che «il neorealismo produceva un “di più di realtà”, formale o materiale», sgombrando il campo dai cliché e dai luoghi comuni che da sempre hanno reso problematico il riconoscimento del neorealismo come grande apertura dello sguardo. Bazin stesso riconosceva il Neorealismo come arte del presente, come grande amalgama delle forme cinematografiche.

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Come ogni apertura, come ogni soglia, il Neorealismo non è stato una corrente, un movimento o una scuola, è stato un modo di pensare e mettere in pratica uno sguardo, le cui tracce, la cui sopravvivenza continuano ad essere presenti nel cinema, soprattutto quando il cinema lavora sulle soglie, appunto, sui passaggi, sui confini.

Il “di più di realtà”, lo chiamava Deleuze. È un’espressione che indica un oltrepassamento, un andare oltre il dato visibile. Ma verso cosa? Verso una dimensione spirituale, mistica? No, non necessariamente; il cinema ha a che fare con corpi, eventi, situazioni. Una prima forma dell’oltrepassamento, del “di più di realtà” è ciò che accompagna, da tempo, le forme del cinema del reale, che in questo senso raccolgono con consapevolezza la sfida. Soprattutto quando lavorano su quel confine, sempre evocato, ma mai (aggiungerei per fortuna) definito con chiarezza, del rapporto tra realtà e finzione per dirla in termini banali. Film e immagini che lavorano su corpi e eventi reali, costruendo consapevolmente storie, messe in scena. È ciò che facevano Michel Brault e Jean Rouch, certo; è ciò su cui lavorano registi come Michelangelo Frammartino (di cui abbiamo parlato poco tempo fa) e Roberto Minervini.

low tideRegista marchigiano trapiantato in Texas, Minervini come Frammartino raccoglie in modo personale la sfida lanciata dall’espressine deleuziana. Laddove Frammartino filma un territorio, il sud, la Calabria, la Lucania per ritrovare le tracce di un’immagine-tempo, sospendere il presente e rendere visibile il mito, il gesto misterioso ed ancestrale, il rapporto tra natura e paesaggio umano, Minervini, soprattutto in film come Low Tide e Stop the Pounding Hearth lavora sulle tracce disperse di una sacralità del mondo, perduta, confusa, nascosta.

Si tratta di finzione, certo. Si tratta di raccontare storie, ma i corpi del bambino e della madre di Low Tide sono lì, quasi ottusamente presenti, che negano al momento stesso in cui lo affermano il loro ruolo attoriale. Sono lì a testimoniare un gesto di cura, del prendersi cura, che va al di là di ogni giustificazione, di ogni spiegazione. Non si tratta di ricoprire il mondo di bellezza, ma di cercarla là dove sembrerebbe non annidarsi: ecco forse un primo significato del di più di realtà di cui stiamo parlando.

stop the pounding heartStop the Pounding Hearth il movimento si intensifica. Una storia d’amore, mai espressa, mai compiuta, in un luogo sospeso dal tempo, nella profonda campagna texana, dove domina una religiosità arcaica, dove il mondo sembra allontanarsi. Minervini filma corpi e luoghi di flagrante realtà, li mette in scena, trasformandoli, trasfigurandoli. Sara, una delle figlie di una famiglia di allevatori di capre che non crede nell’educazione pubblica diventa il corpo misterioso e affascinante protagonista di un evento (l’emozione, il sentimento dell’amore) senza per questo allontanarsi dal mondo arcaico e reale in cui abita. Lo sguardo di Minervini coglie con precisione accurata momenti e scarti (i giochi dei bambini, le feste del paese, le gare di tiro con la pistola, la preparazione del formaggio) e costruisce momenti di dialogo tra i genitori e i figli o tra i ragazzi, in cui una visione del mondo in cui un dio precettore e giudice domina ogni gesto e ogni respiro prende forma. Ma lo sguardo della macchina da presa non è lo sguardo di dio, non giudica, non distribuisce precetti, se mai (ri)guarda il mondo, i suoi personaggi, i suoi corpi. Sara e la sua (vera) famiglia recitano, certo; ma cosa recitano? Citano se stessi, di nuovo. Solo così il racconto apre lo sguardo ad un “di più di realtà”, che è poi l’umano, trasfigurato in una serie di gesti assolutamente “reali”, come uno sguardo, un abbraccio, una medicazione ad una capra malata…). È questa in fodno la dimensione del “sacro” in Minervini, non il mondo attraversato da precetti religiosi, né da una presenza che lo trascende, ma dalla sacralità di un desiderio, di una sentimento, di un gesto.

Lavorare su questa soglia, tra messa in scena e scarti reali, tra gesti catturati o previsti, è il compito del cinema del reale in Minervini, proprio perché il reale (come anche il cinema) non è definito, ma si apre sempre più a visioni che lo trasfigurano.

 

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