DOCUMENTARIO – Nyon e le forme

Vent’anni di visioni del reale. Nyon è da tempo uno degli appuntamenti importanti per saggiare lo stato e le linee portanti del documentario contemporaneo, e l’edizione del ventennale (dal 25 aprile al 3 maggio) si pone come un percorso multiforme e aperto, che incrocia sguardi e pratiche di autori affermati e di nuovi registi. Come nel cinema di Thomas Heise, Laila Pakalnina e Sebastian Mez.

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Vent’anni di festival a Nyon, vent’anni di visioni del reale. Nyon è ormai da molto tempo uno degli appuntamenti importanti per saggiare lo stato e le linee portanti del documentario contemporaneo, e l’edizione del ventennale (dal 25 aprile al 3 maggio) si pone come un percorso multiforme e aperto, capace di incrociare sguardi di autori affermati e di nuovi registi, pratiche dell’immagine che ampliano ed esplorano le modalità con cui il cinema contemporaneo riflette al tempo stesso sul mondo e su se stesso, con cui rimette in gioco vecchie e nuove forme, linguaggi, tracce e impronte di un cinema che non cessa di pensare e provare il proprio rapporto con il reale e la sua percezione, la sua messa in forma.

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Nei film che circolano nei primi giorni del festival sembra infatti agitarsi l’idea, fecondamente ossessiva, che la posta in gioco del cinema sia sempre una questione (o meglio, una messa in questione dello sguardo), della soggettività che si dispiega in una immagine, in un gioco di adesione e sottrazione. In Städtebewohner di Thomas Heise, uno degli sguardi più autoriali del cinema tedesco, la posta in gioco si rinnova. Girato in Messico, all’interno di un centro di detenzione minorile, il film nasce come scarto, in più di un senso. Scarto rispetto ad un progetto iniziale (un film su una messa in scena teatrale di Brecht all’interno del carcere, poi abbandonato), e scarto rispetto al sottogenere dei film carcerari che abbondano all’interno della produzione documentaria mondiale. In un bianco e nero rigoroso, il film indaga una forma particolare della “cittadinanza” (a cui fa riferimento il titolo), forma che si lega ad uno sguardo che esplora, avvolge e svela i corpi di alcuni ragazzi, ne ascolta le parole, li ascolta quando, improvvisamente, iniziano a declamare di fronte alla camera dei versi di Brecht. Lo sguardo alterna riprese in assoluta mobilità, in cui la macchina a mano è “con” i personaggi, a lunghe inquadrature-quadro, in cui la distanza mette in relazione quei corpi con gli spazi chiusi dell’istituzione carceraria. Lunghe panoramiche descrivono situazioni collettive (i momenti all’aperto con i parenti), contribuendo all’idea che la macchina da presa al tempo stesso descriva e faccia propri, descrivendoli, quei corpi e quei luoghi, quelle esistenze fatte di gesti, parole, movimenti.

Descrivere non è dunque un gesto oggettivo, non lo è mai stato, come ricordava Pasolini. In un certo senso, si tratta sempre di un rapporto di vicinanza e lontananza, si tratta sempre di rispondere (o provare a rispondere) alla domanda sulla distanza. Da dove filmare non significa solo interrogarsi sulla posizione fisica della camera, ma anche sulla struttura stessa del film, che sempre risponde ad un doppio vincolo: il rapporto tra un luogo, un corpo, un evento e lo sguardo che viene restituito dal dispositivo del cinema.

In Substanz, ulteriore lavoro di Sebastian Mez su un luogo, un territorio ferito dopo lo straordinario Metamorphosen, girato a Chernobyl, la regia esiste in quanto domanda: come filmare uno spazio? Uno spazio come quello del Giappone colpito dal terremoto? Ed ecco che la struttura del film si divide in due percorsi visuali: da una parte i segni, le tracce visibili della ferita del sisma, macerie, detriti, frammenti, inquadrati in dettaglio, attraverso una serie di sovrimpressioni che trasformano l’inquadratura in quadro astratto di forme e linee; dall’altra, una serie di campi medi e lunghi che interrogano uno spazio che torna a vivere, una vita collettiva, di massa che si muove malgrado tutto, nonostante il trauma, la ferita che ne attraversa gli spazi interiori ed esteriori. La dimensione visuale, in questa doppia esposizione diventa allora spazio teorico di riflessione e di interrogazione. Appunto, di domanda.

Come filmare un luogo particolare, che improvvisamente appare di fronte agli occhi colpendo lo sguardo, e che si pone come spaccato di mondo, pur nella sua apparente quotidianità? È quello che accade in Hotel and a Ball di Laila Pakalnina, dove un campo sportivo, posto proprio sotto le finestre dell’hotel dove la regista e la sua troupe alloggiano diventa uno spazio ricchissimo di gesti, movimenti, corpi. Pakalnina filma questo spazio attraverso un montaggio che lo attraversa come saltando da un luogo all’altro, da una palestra per culturisti ad un campo di calcio per bambini, da una pista di atletica agli spalti dei campi da gioco. In ogni inquadratura qualcosa si muove, compie dei gesti: sono i gesti di una messa in gioco del corpo come esercizio, messa alla prova, educazione di sé; allo stesso tempo, sono i gesti di esistenze concrete, che interpretano se stesse, che lavorano e si esplorano. Sono brandelli di vita colti nell’apparente normalità di un quotidiano, che rivela, in realtà, un mondo complesso quale può essere quello di una qualsiasi esistenza. Non usciamo mai dal campo da gioco, se non per ritornare nell’hotel, dove altri corpi, anziani, passano il tempo, apparentemente ignari di ciò che accade sotto le loro finestre. Eppure si tratta sempre di esistenze alla prova, viste mentre riposano o fanno colazione. Una doppia esposizione in cui il montaggio non costruisce una struttura definita, ma dispiega un curiosare dello sguardo, un cogliere, attraverso il gusto dell’inquadratura che da sempre caratterizza il cinema di Pakalnina, frammenti di un gesto che dispiega un mondo, interiore ed esteriore.

È un cinema fatto da e a partire da domande, come sempre in fondo. E le domande continuano a essere poste all’interno di un festival, che è appunto luogo dell’interrogazione.

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