DOCUMENTARIO – immagini, malgrado tutto: Rithy Panh e Joshua Oppenheimer

l'immagine mancante di rithy panh

Lo sguardo documentario è di per sé uno sguardo interrogante, ed è dunque capace di mettere in gioco se stesso nella ricerca della forma con cui raccontare storie che non possono essere filmate. The Look of Silence di Joshua Oppenheimer e L’immagine mancante di Rithy Panh costituiscono due modalità, due possibilità di risposta all’interrogazione di partenza: quella dell’immagine mancante

 

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l'immagine mancante di rithy panhRaccontare. Uno dei gesti più antichi. Gesto che costruisce un rapporto prima ancora che condividere un sapere; gesto che è, cinematograficamente, spesso legato ad una interrogazione, ad una domanda che lo fonda: come raccontare? Chiedersi come raccontare una o più storie significa interrogarsi anzitutto sull’urgenza stessa del racconto, sulla necessità, morale e politica del narrare. Lo sguardo documentario è di per sé uno sguardo interrogante, ed è dunque capace di mettere in gioco se stesso nella ricerca della forma con cui raccontare storie che non possono essere filmate, perché legate ad un passato che non può più essere reso visibile. The Look of Silence di Joshua Oppenheimer e L’immagine mancante di Rithy Panh costituiscono due modalità, due possibilità di risposta all’interrogazione di partenza. In entrambi, il punto di partenza è appunto la mancanza di immagini, la mancanza di uno sguardo capace di mostrare un orrore (la ferocia della dittatura in Cambogia, lo sterminio di ogni forma di opposizione comunista in Indonesia). Se i massacri della storia, gli eventi storici coperti di sangue si mostrano lacunosi di vere immagini – ma lo sono anche quando i dispositivi sono presenti e ci consegnano migliaia di ore di filmato, come a Gaza, in Siria, in Egitto, in Libia? –  allora il compito del cinema è di cercare la forma attraverso cui creare le immagini che mancano.

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the look of silenceIn The Look of Silence, Oppenheimer ritorna nei luoghi e agli eventi già al centro dello sconvolgente Act of Killing, questa volta attraverso una nuova modalità di ricerca. Nel primo film girato in Indonesia, il regista texano trapiantato in Danimarca aveva ricercato l’immagine mancante attraverso un renacting degli stessi torturatori, che ricreavano di fronte alla camera i loro crimini, in un corto circuito di memoria e messa in scena; nel suo ultimo film, il regista mette in gioco in modo ancora più evidente l’interrogazione alla base di ogni atto del filmare. Il protagonista di The Look of Silence è infatti un oculista ambulante, il cui mestiere di far vedere si trasforma gradualmente nella ricerca di un vedere, di un’immagine che manca e che può solo mostrare la sua mancanza. L’uomo gira per l’Indonesia alla ricerca di una memoria, interrogando le persone che si sono rese protagoniste di quegli anni terribili. Lo sguardo può essere acuto, senza macchie o zone oscure, ma ciò che resta da vedere è paradossalmente ciò che resta del silenzio, della mancanza di parole che accompagna la mancanza di immagini. Non si ricostruisce una verità attraverso la narrazione, ma si mostra il potere o l’impotenza della narrazione che fa i conti con le ferite tragiche della Storia.

L’immagine che manca è la questione cruciale nel cinema di Panh sin da S21 – La macchina di morte degli khmer rossi (così come il cortocircuito tra parola e silenzio lo è nel cinema di Oppenheimer). L’immagine mancante del genocidio dei cambogiani ad opera del regime di Pol Pot non può essere ritrovata, dunque Rithy Panh si affida al racconto a partire da sé, dalla sua esperienza diretta di tredicenne proiettato improvvisamente nell’incubo dei campi di lavoro. Tutto il film è allora affidato a due ordini di immagini, diorami che rievocano il passato, animati da piccoli pupazzi dipinti a mano e immagini di repertorio, immagini di propaganda sottoposte ad un rigoroso s-montaggio e svuotamento del loro originario senso. Gli squarci di vita “messi inscena attraverso i pupazzi sono immediatamente presentati come qualcosa che non può e non deve sostituirsi alle immagini, ma sono “altre” immagini. Immagini ricordo che il montaggio e la voce fuori campo ordinano in un senso intellegibile, sono forme attraverso la quale sfuggire al vuoto e al buio della mancanza di ogni immagine.

Immagini, malgrado tutto. il titolo del libro di Didi-Huberman ritorna qui caricato di un nuovo senso. Il filosofo francese si interrogava in quel testo sulla potenza e la necessità morale e politica (prima ancora che estetica) delle foto scattate con mezzi di fortuna da alcuni membri di un Sonderkommando in un campo di concentramento nazista, dialogando a distanza con un’opera straordinaria che è di fatto alla base di tutto questo discorso, e che costituisce il nucleo problematico fondamentale delle operazioni cinematografiche di Panh e Oppenheimer, vale a dire Shoah di Claude Lanzmann.

shoah di claude lanzmannDopo Notte e nebbia di Resnais, infatti, è il film di Lanzmann ad aver posto con forza l’interrogativo dell’immagine mancante come immagine impossibile. Non si può ricreare l’immagine dei campi di concentramento, si può solo contemplare (e filmare) le rovine e ascoltare le parole (e i silenzi) di coloro che quegli eventi li hanno vissuti. Ma così facendo – e in misura diversa lo teorizzano e lo mettono in pratica, seppur in modo diverso sia Lanzmann sia Panh e Oppenheimer, il vuoto dell’immagine, la sua mancanza creano necessariamente altre immagini, fatte di parole e di luoghi, di pupazzi o immagini smontate, di animazione (Ari Folman) o di oggetti-traccia. Se dunque il lavoro del regista cambogiano e del regista texano sono stati più volte accostati, è nel riconoscimento del solco in cui queste opere si collocano (la mancanza delle immagini come tragedia della Storia) che la loro forza teorica oltre che estetica può essere ritrovata.

 

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