DOCUMENTARIO – Wiseman e l'ipotesi del ritrarsi

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Più che in altri film recenti, in National Gallery il regista americano ritrova la stessa atmosfera danzante che aveva caratterizzato La danse. Atmosfera danzante o sguardo aperto e curioso al mistero del vedere. Sw quello finiva per essere un grande film sul mistero del corpo danzante e del dispositivo che permette di vederlo, questo è uno straordinario film sul ritrarsi dell’immagine.

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national galleryFilmare un museo, non solo in un museo; filmare il ritrarsi dei volti e dei soggetti, non solo filmare i ritratti. Dipingere (o filmare), come ricorda Nancy, non significa più produrre o rivelare qualcosa, ma significa produrre l’esposizione di un soggetto (o del mondo). Produrre, cioè, letteralmente, tirare fuori, condurre davanti. Ogni volta che si vede, non si vede qualcosa o qualcuno, ma si vede anche l’atto di vedere, il modo in cui si organizza una visione, si costruisce una struttura visibile del mondo. Dunque mostrare il farsi dell’immagine o il luogo delle immagini, significa anche raccontare come il mondo diventa immagine. Ecco allora, il vero significato del filmare un museo.

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L’uscita imminente in sala, il prossimo 11 marzo, di National Gallery di Frederick Wiseman è l’occasione allora per riprendere un discorso che in fondo attraversa trasversalmente la storia del cinema (da sempre affascinata dalla pittura come analogon del cinema stesso). Straub-Huillet, Leos Carax, Jon Jost, Harun Farocki, Godard, Aleksandr Sokurov: sono solo alcuni dei registi che hanno filmato il museo, cioè il luogo di esposizione e riflessione della pittura, che hanno filmato il suo permanere nel tempo attraverso le osservazioni di un visitatore d’eccezione come Cézanne (Straub-Huillet), riflettendo sull’immagine che abita un museo (Farocki), sulla sua inquietudine (Carax), sul suo essere tempio della memoria e della Storia, immaginaria e reale (Sokurov).

national galleryWiseman, in National Gallery, sembra ricordare ognuno di loro, senza evocarli (e forse neanche conoscerli). Sembra ricordarli soprattutto perché il suo film lavora esplorando ogni spazio di un museo, dal laboratorio di restauro agli uffici gestionali, dalle gallerie vuote a quelle abitate dai tanti visitatori, dalle visite guidate alle sale riunioni dove si discute di budget e di finanziamenti, dalle pulizie agli allestimenti, dalle file per la mostra leonardesca ai rituali della biglietteria: tutto nel film è museo, ovverosia tutto è meccanismo e dispositivo di visione e organizzazione della visione e il rigore curioso del regista americano è visibile in ogni dettaglio, in ogni tempo e taglio dell’inquadratura, nel passaggio rapido dei volti dei visitatori o nell’attardarsi su alcuni sguardi, su alcune parole che spiegano, contestualizzano, interpretano l’arte di Leonardo, Caravaggio, Rembrandt, Holbein.

national galleryPiù che in altri film recenti di Wiseman, come At Berkeley, Boxing Gym o Crazy Horse, nel film girato alla National Gallery di Londra il regista americano ritrova la stessa atmosfera danzante che aveva caratterizzato La danse, il film girato a l’Opera di Parigi. Atmosfera danzante o sguardo aperto e curioso al mistero del vedere. Sì, perché se La danse finiva per essere un grande film sul mistero del corpo danzante e del dispositivo che permette di vederlo, National Gallery è uno straordinario film sul ritrarsi dell’immagine, nel doppio senso che evoca questo termine, quello appunto legato al ritrarre corpi e soggetti, e quello legato al ritrarsi di ogni soggetto in qualsiasi rappresentazione. Le immagini di National Gallery sono, da questo punto di vista, legate al duplice senso del ritrarre/ritrarsi: il film e il suo movimento mostrano il quadro come elemento materico, traccia di una mano e di uno sguardo, elemento simbolico e supporto delicato di un’idea pittorica o artistica. Sono immagini soggette a tanti sguardi, distratti o ammirati, curiosi o allibiti, indifferenti o calcolanti, apatici o affascinati. Sono immagini che ricorrono da sole, a tutto schermo, o apparentemente incastonate in inquadrature che mostrano i quadri appesi alle pareti, inseriti in sale o gallerie, coperti dai corpi dei visitatori o da essi ignorati, osservati con attenzione spasmodica da amatori o da restauratori, curati con delicatezza estrema da restauratori o curatori di mostre.

La cosa straordinaria del film è che l’immagine non è mai sola, essa è attraversata da centinaia, migliaia di sguardi, compreso, infine, il nostro. E ognuno di questi sguardi contribuisce ad arricchire il mistero, l’enigma che in fondo ogni immagine è. Ogni immagine del reale, ogni ritratto in fondo lo è. In Grecia, racconta ancora Nancy, quando gli déi se ne andarono dalle città, venute a mancare le figure archetipiche di ogni immagine, all’arte non restò che volgersi al mondo, per ritrovare nei corpi, nei volti e negli oggetti la testimonianza del mistero o dell’enigma del reale. National Gallery è allora la storia di questo movimento, di questo doppio, straordinario e sempre vitale ritrarsi di ogni immagine, che sia essa pittura o cinema, non vi è differenza.

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