Il fenomeno GLEE

Glee
La critica è entusiasta. Ogni puntata conta circa otto milioni di spettatori sintonizzati davanti al tubo catodico. Ma perché? Qual è il motivo di tanto successo?

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gleeLa scena è più o meno questa. Ore 21 circa, zona salotto. “David, tesoro, hai già messo a letto i bambini?” incalza lei. Lui, pantofole e vestaglia, risponde “Certo, Victoria cara. Tu hai sintonizzato la tv sul canale giusto?”. “Assolutamente. Finalmente ci possiamo vedere in santa pace Glee.” conclude la mogliettina soddisfatta.
Di cognome David fa Beckham e Victoria, da nubile, Adams.
Ora, è probabile che alla maggior parte dei comuni mortali non interessino poi molto le abitudini di una delle coppie più ricche e in voga del pianeta. Infatti tutto ciò serve semplicemente a spiegare, in breve, l’eco prodotta dal fenomeno Glee. Non si tratta di essere fan sfegatati o convinti detrattori, piuttosto arrivare a chiarire il motivo per cui un semplice telefilm diventa fenomeno di costume. Tanto da mobilitare l’intero star system hollywoodiano e oltre. A Roma, il 21 dicembre 2009, presso la galleria Alberto Sordi, è andato in scena il primo flash mob per il lancio di una serie tv. Duecento ballerini, fra la folla impegnata in compere natalizie, hanno danzato sulle note di Don’t stop believing (Journey) e Somebody to love (Queen), ovviamente interpretate dal cast di Glee. In patria, dove naturalmente spopolano cd musicali con la colonna sonora, gadget e quant’altro, durante l’estate i protagonisti dello show sono andati in tour in diverse città degli States. Madonna e Lady Gaga hanno già preteso (e avuto) una puntata tematica basata sulle loro canzoni, concedendone i diritti. Britney Spears non vuole essere da meno.
Le guest star si moltiplicano, sembra facciano a cazzotti per poter far parte, anche solo marginalmente, del progetto. La critica è entusiasta. Ogni puntata conta circa otto milioni di spettatori sintonizzati davanti al tubo catodico; per gli aficionados è stato già coniato un nome: gleeks, un misto fra glee (allegria) e geek (i maniaci della tecnologia). Lo sceneggiatore, produttore e regista Joss Whedon (Buffy l'ammazzavampiri, Ripper, Toy Story, Alien la clonazione) ha diretto un episodio dopo essersi proclamato grande estimatore. Ne esiste persino una versione pornografica dal titolo This ain't Glee XXX.

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Ora. Qual è il motivo di tanto successo?Glee, serie tv di Ryan Murphy
Glee è di fatto, nei temi e nello svolgimento, un teen-drama. Ma è allo stesso tempo riduttivo imprigionarlo in questa categoria, anche perché, a ben guardare, il principale motivo di successo è forse l’aggiunta di un genere, il musical. Una scommessa, in apparenza, sicuramente una ventata di freschezza in un ambiente un po’ fossilizzato in polizieschi, medical drama e procedural come quello delle serie tv.
Negli ultimi anni il musical, dopo esser stato parzialmente messo da parte, è tornato ad avere una certa rilevanza. Prima con i "nuovi" classici Moulin Rouge (Baz Luhrmann), Chicago (Rob Marshall) e lo stesso Sweeney Todd (Tim Burton). Poi facendo presa su un pubblico di adolescenti grazie alla saga High School Musical. Il vero apripista però, si può dire senza il timore di essere smentiti, è Mamma Mia di Phillyda Loyd: pellicola che ha ampliato il target, riuscendo a far breccia anche nei gusti di un pubblico più ampio e lasciando intravedere per il genere nuove potenzialità drammaturgiche e cinematografiche.
Ed ecco che allora Glee può entrare in scena.
Un modesto professore di spagnolo e il suo sogno. Ridare vita al Glee club, per riassaporare le emozioni dell’adolescenza, quando musica e canto gli avevano regalato il periodo più bello della sua vita. Tutto ha inizio così.
Di diverso, rispetto agli illustri colleghi televisivi, parecchi fattori. Un’ambientazione tutt’altro che glamour, l’Ohio. Lontani quindi dall’assolata California e dalla sgargiante Upper East Side di Manhattan. E i protagonisti. Non più i soliti bellocci, vincenti e stracolmi di soldi, ma anzi dei losers, o come loro stessi si definiscono, dei freak. Il Glee club è la fossa della popolarità, anche il quarterback della squadra di football, notoriamente il ruolo più ambito e riverito del liceo, finisce ricoperto di granita solo per essere entrato a far parte del circolo. Dei veri e propri casi umani insomma. Basta analizzare a grandi linee la rosa delle prime cinque adesioni al gruppo. La cantante leader femminile, Rachel (Lea Michele), è ansiosa, logorroica ed insicura; non una bellezza classica, sicuramente attraente, se non fosse che riesce a prosciugare ogni goccia di linfa vitale di chi le sta accanto. Abbandonata dalla madre, è stata cresciuta da due papà. Mercedes (Amber Riley) è la classica adolescente sovrappeso. Artie (Kevin McHale) è su una sedia a rotelle. Kurt (Chris Colfer) è palesemente effemminato e ha un gusto maniacale per la moda. Tina (Jenna Ushkovitz) è balbuziente e dark. E anche coloro che entrano a far parte successivamente dell’elitario circolo, anche se una volta erano cheerleader e giocatori di football, finiscono per pagarla.

Non è difficile perciò capire per quale motivo milioni di ragazzi si siano appassionati alla causa. Di certo è più semplice provare empatia per figure umane simili, piuttosto che sognare villone addobbate, abbronzature, corpi scolpiti e genitori impeccabili. Glee, serie tv di Ryan Murphy
Anche gli adulti non vengono risparmiati. Will (Matthew Morrison), il professore di spagnolo che rimette in piedi il Glee club, vive un momento difficile con la moglie Terry (Jessalyn Gilsig) e prova una simpatia ambigua per la consulente scolastica Emma (Jayma Mays), pazzamente innamorata di lui. Eternamente in bilico fra il passato e un avvenire incerto, pieno di sogni forse troppo poco adulti. Situazioni plausibili, problemi reali e comuni.
Diciamoci la verità, arrivati al giorno d’oggi, è complicato inventarsi qualcosa di nuovo di punto in bianco. Le trame, le storie da raccontare, più o meno sanno sempre di già visto e sentito. La differenza, quindi, la fa lo stile, il taglio con cui si decide di affrontare o sviluppare un argomento. La caratterizzazione dei personaggi diventa determinante. Sono ovviamente presenti le tematiche tipo del filone adolescenziale (i primi amori, il sesso, la difficoltà del diventare adulti, la voglia di essere apprezzati e amati per ciò che si è), ma l’irriverenza e il coraggio con cui vengono affrontate e il punto di vista differente da cui vengono prese in considerazione discostano Glee dalla concorrenza.
Il creatore della serie, Ryan Murphy, si era già distinto in passato per una vena decisamente poco politically correct. Ci aveva provato, con scarso successo, con un altro teen-drama Popular (andato da noi in onda su Mtv). Poi il botto l’aveva fatto con Nip/Tuck. E chi ha visto almeno una puntata delle sei stagioni del telefilm dei due chirurghi plastici sa esattamente di cosa si sta parlando. E la sua mano si vede pesante. Un esempio. Quinn (Dianna Agron) è la capo cheerleader, presidentessa del club di castità, fidanzatina modello del capitano della squadra di football. La classica ragazza della porta accanto, famiglia bigotta, modello da seguire. Solo che, in verità, è incinta del migliore amico del suo ragazzo.
Indiscutibilmente, tuttavia, il vero fiore all’occhiello è la creazione del personaggio di Sue Sylvester (Jane Lynch), coach delle Cheerios, squadra delle cheerleader. Perennemente in tuta, adidas, rossa (talvolta di altri colori). Megafono in mano, pronta ad urlare contro il malcapitato di turno. Misantropa, scontrosa, scorbutica, ha sempre un insulto variopinto pronto per chiunque. Ed ha un solo vero scopo nella vita: distruggere Will e il suo Glee Club. Sue è un incrocio fra Wile E. Coyote e il commissario Zenigata. Una macchietta, volutamente. Ordisce piani macchinosi, ricatta, usa qualsiasi mezzo, meglio se sporco, per raggiungere il suo obiettivo. Eppure lei stessa sa che senza la sua nemesi, senza il bersaglio del suo astio, sarebbe persa. Forse perché è fatta della stessa pasta dei suoi arciodiati rivali. E nel corso della prima stagione non mancherà occasione per rivalutarla, per rendersi conto che ognuno ha i suoi buoni motivi per comportarsi come fa. Non c’è un malcelato buonismo, solo la volontà di aprire la mente agli scenari più disparati.

Forse, per giudicare Glee a trecentosessanta gradi, bisognerebbe possedere anche le capacità di un critico musicale. Perché senza musica questo telefilm sarebbe solo uno come tanti. Ogni sentimento, ogni situazione, vengono puntualmente rappresentati attraverso una canzone, una coreografia. Musica contemporanea, brani di musical, rock, rap, hip-pop, ballate pop, funk. C’è di tutto. Manca solo qualche omaggio agli albori, tipo Elvis o i Beatles, per completare il quadro.
E il talento di questi ragazzi è indiscutibile. Su tutti Lea Michele, che, come Matthew Morrison, viene da Broadway e quando canta sprigiona una potenza viscerale realmente contagiosa e Amber Riley, una voce quasi degna di Aretha Franklin. Di motivi validi a giustificare il successo di Glee, a conti fatti, ce ne sono a bizzeffe, con scene probabilmente già entrate nella storia della tv. Come quando Kurt entra a far parte della squadra di football nel ruolo di kicker e, per aiutare i compagni a raggiungere una vittoria che manca da troppo tempo, insegna loro un balletto sulle note di Singles Ladies di Beyoncé, per disorientare gli avversari. O il video di Vogue di Madonna, riprodotto con Sue nei panni della Ciccone.
Il pericolo allora è solo uno: la ripetitività. La novità potrebbe venire a noia, la struttura di ogni singola puntata è più o meno la stessa e, alla lunga, potrebbe stancare il pubblico ( e del resto sono tanti i potenziali cult a essere stati stroncati dalla critica e gradualmente abbandonati dagli spettatori dopo poche stagioni). Quello che potrebbe salvare Glee è che è un telefilm corale. Quindi, come è già successo per altro con la gravidanza di Quinn, nel caso in cui la storia di un personaggio non appassioni gli spettatori, si può immediatamente puntare il microscopio sulle vicende di qualcun altro. È presto per dirlo. Dopo poche puntate, l’anno scorso, la Fox ha rinnovato per ben tre anni il contratto alla serie. Un caso unico in un ambiente in cui, ormai, show televisivi vengono chiusi dopo una manciata di episodi. Staremo a vedere. La seconda stagione darà il suo responso.

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