SERIE TV – "House of Cards", di Beau Willimon

house of cards 
Per anni la Democrazia statunitense ha nutrito il proprio status mitologico attraverso opere come The West Wing e Parks and Recreation. Alla luce di ciò, non possiamo che considerare House of Cards come un devastante fulmine a ciel sereno, una scossa dove si vede il lato nascosto di un mondo politico dove è necessario farsi lupi per arrivare al successo.

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Negli ultimi anni abbiamo assistito, all’interno dell’universo della serialità americana, a un assoluto terremoto narrativo che ha messo in discussione molti degli archetipi a stelle strisce, fino ad arrivare al tradimento dell’assunto principale che vede sempre il buono essere l’eroe della storia. Ecco dunque spiegate le epopee eroiche di serial killer, di poliziotti corrotti e ubriaconi, di spietati mafiosi in psicoanalisi o di semplici delinquenti dalle belle (si fa per dire) speranze.

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Da questo cambio di prospettive, per molto tempo è stata risparmiata una delle eccellenze della società americana: la politica. Per anni, infatti, la Democrazia statunitense è stata considerata quasi intoccabile, nutrendo il proprio status mitologico di “miglior sistema politico del mondo libero”, attraverso opere dai messaggi edificanti come The West Wing e Parks and Recreation e proponendo i vecchi valori del mondo idilliaco di Frank Capra. Detto ciò, non possiamo che considerare la serie House of Cards come un devastante fulmine a ciel sereno, una fortissima scossa che ci ha permesso di vedere il lato nascosto della medaglia politica. La serie, tratta da un prodotto televisivo realizzato nei primi anni novanta dalla BBC e ambientato nel partito conservatore thatcheriano, è stata prodotta dal canale on-demand Netflix e adattata per la tv americana da Beau Willimon, già autore del cinico Le idi di Marzo di George Clooney. Willimon, come già anticipato nel film di Clooney, ha un’immagine assai disincanta di Washington D.C, una giungla dove è necessario farsi lupi per arrivare il successo. Messi da parte gli ideali e il bene comune, in questo castello di carte che è il Congresso degli Stati Uniti, vince chi conosce le regole e sa come meglio infrangerle.

 

Il re (di picche) di questo mondo è Frank Underwood, spietato deputato democratico, inarrestabile nella sua sanguinosa e implacabile ascesa al vertice. Spinto da ambizioni, vendette e semplice sadismo (come i gatti che giocano con le proprie prede) Underwood/Spacey è un geniale burattinaio che sfrutta un Partito Democratico colpevolmente ingenuo (rappresentato dal povero aspirante governatore Russo) e un presidente idealista (Obama?) per tendere le fila del proprio impero. Spacey, è bello dirlo, finalmente torna a regalarci una performance clamorosa. Flemmatico e feroce, il suo Underwood è imperdibile come i suoi soliloqui con i quali, sguardo rivolto alla macchina, ci fa complici dei suoi piani di potere. Sembra quasi, forse per la complicità di David Fincher (produttore esecutivo e regista dei primi due episodi), che si diverta a riproporre il biblico assassino seriale di Seven. Come se lo psicopatico Joe Doe, scampato alla pistola di Brad Pitt, si sia dato alla politica per realizzare il suo piccolo sogno: regnare sulla montagna dei corpi delle sue vittime/avversari politici.

 

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