VENEZIA 63 – "Sang sattawat (Syndromes and a Century)", di Apichatpong Weerasethakul (Concorso)

Cinema come sfida estrema, fatto di azioni replicate, di figure intrappolate dentro uno spazio che a un certo punto si liberano, segno di uno esperimento forse eccessivo ma anche assolutamente personale e riconocibile. "Sang sattawat" è un film che va atteso. Non sempre però si ha la forza e la pazienza per farlo

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È sempre al limite il cinema del thailandese Apichatpong Weerasethakul, capace di convergere contemporaneamente sentimenti di attrazione e rifiuto. Da una parte il suo cinema può essere esasperante nella continua ripetizioni di dettagli, nell'uso insistito della voce fuori-campo, nei lunghissimi piani fissi. Dall'altra però c'è uno sperimentalismo estremo, assolutamente personale e riconoscibile attraverso il quale si crea quasi un'identificazione nella provvisoria perdita di orientamento dei suoi protagonisti.

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Sang sattawat va letto innanzitutto in una chiave anomala, a prima vista irrintracciabile. Il film fa parte infatti del progetto New Hope partito dalla città di Vienna in occasione dell'anniversario in onore di Mozart. Il direttore del Teatro Nazionale, piuttosto che rievocare la sua figura, ha cercato invece di cogliere lo spirito del musicista contattando artisti di diverse discipline artistiche (musica, arti figurative, cinema). Weerasethakul ha deciso di partecipare a questa iniziativa in quanto ha rintracciato nella musica di Mozart e nel Flauto Magico in particolare il tema della trasformazione che è anche l'elemeno narrativo principale di questo film.


La pellicola si svolge in un'ospedale di una piccola cittadina. Il signor Toa cerca do corteggiare la dottoressa Tei e, malgrado sia timido prova a dichiararle il suo amore. Lei però pensa ancora all'esperto di orchidee incontrato durante una visita nel suo vivaio. Nello stesso luogo, c'è un dentista che entra in complicità con un giovane monaco,un medico praticante proveniente dall'esercito al suo primo giorno di lavoro.


Nel mettere in atto la mutazione Apichatpong Weerasethakul adotta il principio della ripetizione. Le vicende dei personaggi ad un certo punto si ripetono ma vengono inquadrate sotto angolazioni differenti. Il film parte infatti con il volto di un uomo interrogato dalla voce fuori-campo della dottoressa. Invece poi la la conversazione viene mostrata con il viso della donna in primo piano. Del resto, Sang sattawat è pieno di gesti replicati (l'infermiera e un ragazzo che si chinano per allacciarsi una scarpa), di figure intrappolate dentro precise geometria architettoniche ed è forse in questo rapporto tra corpo/ambiente che Weerasethakul cerca in qualche modo di dare forma alla follia.


Come il precedente Tropical Malady, vincitore del Gran Premio della giuria al festival di Cannes del 2004, anche quest'opera ha delle improvvise e frenetiche aperture e muta  con l'improvvisa presenza di suoni (il monaco che suona la chitarra), di colori che cambiano (l'arrivo della notte). Accadeva la stessa cosa all'irritante e straordinario Tropical Malady. E in Sang sattawat, dell'opera precedente del cineasta tailandese sono come rimaste delle tracce, come gli alberi che si vedono all'inizio.


Certo Weerasethakul è un cineasta che va atteso, a cui va dato tempo. E non sempre si ha la forza e la pazienza per farlo. In Sang sattawat, chi ci arriva, vede proprio i segni della trasformazione come la scena finale della ginnastica collettiva, movimento collettivo che ha un'intensità simile a quella di Zatoichi. Soltanto che il tempo nel suo film si dilata e si comprime di continuo. E non sempre il 'tempo' di Weerasethakul corrisponde, a livello percettivo, al 'tempo' di uno sguardo, di un'attesa, che già varia da spettatore a spettatore.

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