"Death Race", di Paul W.S. Anderson

Il miglior film sinora dell’inglese Paul W.S. Anderson è il riuscito remake del classico Anno 2000, la corsa della morte: puro cinema di serie B che non si vergogna di essere tale, senza pretese autoriali ma con il piede costantemente premuto sull’acceleratore. Solamente un divertissement, il cui amore per i generi e i personaggi è in grado però di coinvolgere anche i cinefili di passaggio…

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Ed eccola qui la serie B: nuda, cruda e senza fronzoli. Ci voleva un regista decisamente poco entusiasmante come Paul W.S. Anderson per riesumarla dall’oblio (anche critico): da mediocre shooter che ad inizio carriera non faceva di certo ben sperare, autore di titoli come Mortal Kombat, Punto di non ritorno e il pessimo Soldier (per fortuna inedito in Italia), con il tempo l’inglese Anderson sembra aver pian piano preso la giusta direzione. E dopo due fanta-horror modesti e derivativi – ma non nocivi – come Resident Evil e Alien vs. Predator, ecco finalmente raggiunta la sintesi perfetta del suo cinema: il suo Death Race omaggia apertamente la gloriosa serie B degli anni settanta e ottanta con spirito genuinamente umile e raccolto, e costruisce un processo filmico perennemente in salita, giocando con i generi e i suoi stereotipi. Partendo da un classico prodotto da Roger Corman e diretto da Paul Bartel, Anderson (anche sceneggiatore) apporta numerose modifiche e lascia vivere il suo film di vita propria,  un’ora e quarantacinque minuti di continue aggressioni ai sensi dello spettatore che riportano dritti al cinema di genere di una volta, quello che non aveva alcuna pretesa che non fosse quella di intrattenere. Senza colpi bassi, senza velleità, ma comunque con il talento della narrazione e della messinscena: Death Race è un prison movie che si trasforma in un film di inseguimenti che si trasforma in slasher, un bodycount ininterrotto che diverte e fa pensare come l’imbarbarimento del gusto sia oggi talmente diffuso da impedirci, a volte, di riconoscere anche quegli elementi più semplici che stanno alla base dei generi. Personaggi tagliati con l’accetta, comprimari che entrano nella memoria con una battuta o solo con uno sguardo (grandissimo il coach interpretato da Ian McShane) e un entusiasmo generale in grado di contagiare anche il cinéphile di passaggio: non un film per cui gridare al miracolo (Anderson non inventa nulla), ma comunque un onesto prodotto capace di far riemergere quei piaceri proibiti della visione, piaceri che credevamo sepolti da troppo tempo. Un cinema dove anche l’inespressività di Jason Statham si lascia perdonare e passa in secondo piano per mettere in risalto la fisicità dirompente dell’attore, un vero e proprio “corpo da cinema” che viene pestato e sbattuto, scaraventato a destra e manca e che ricorda terribilmente quei volti da serie B (appunto) che fino a venti anni fa tanto popolavano le sale di periferia…

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Titolo originale: id.

Regia: Paul W.S. Anderson

Interpreti: Jason Statham, Joan Allen, Ian McShane, Tyrese Gibson, Natalie Martinez

Distribuzione: UIP

Durata: 105’

Origine: USA, 2008

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