"Una Vita Tranquilla", di Claudio Cupellini

Toni Servillo Una vita tranquilla Claudio Cupellini
L'opera seconda del giovane Claudio Cupellini procede senza grossi scossoni incuneandosi nella vita di un  uomo e svelandoci pian piano i suoi segreti più nascosti, in quella che è una classica ragnatela noir. Ma nonostante
questo film disegni in maniera dignitosissima un percorso circolare di dannazione e di duplice paternità tradita, non riesce mai ad emergere da una garbata “medietà”, dove irrimediabilmente va confinato. Servillo Miglior Attore al Festival di Roma 2010

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Toni Servillo in Una Vita Tranquilla Si inizia con una morte. Con un sacrificio quasi rituale, quello di un grosso cinghiale ucciso da un barbuto Toni Servillo, che ha tutto il sapore della premonizione. Siamo in Germania, in una zona dove l’immigrazione italiana ha popolato di bandierine tricolori i ristoranti del circondario. In uno di questi classici templi dell’italianità fuori confine incontriamo Rosario Russo, un immigrato come tanti, sposato e realizzato come albergatore/ristoratore nella terra delle opportunità. Ed è proprio mentre è orgogliosamente intento a servire la prelibata carne del cinghiale cacciato poco prima, che il suo passato – sepolto in un Italia che non avrebbe più dovuto incontrare – lo scova e lo risucchia: suo figlio Diego, che non vede da quando era bambino e che è in Germania con un “collega” per questioni di lavoro, irrompe improvvisamente nella sua quotidianità e la travolge.

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Il film del giovane Claudio Cupellini procede senza grossi scossoni incuneandosi nella vita di quest’uomo e svelandoci pian piano i suoi  segreti più nascosti: illuminando, insomma, un passato che condanna senza appello il suo nuovo presente. L’impalcatura è chiaramente quella di un noir classico e l’approccio registico appare vagamente debitore delle estetiche sorrentiniane (e sicuramente Teho Teardo come compositore della colonna sonora non fa che accentuare questa sensazione). Una vita tranquilla è un film che si affida moltissimo all’espressività di Toni Servillo, al solito mattatore incontrastato della scena, e  all’utilizzo di un montaggio strutturato per continue piccole ellissi che rimandano puntualmente lo scioglimento dei nodi. È come se si sentissero da lontano gli echi lugubri della madre patria (e anche di un cinema di genere ahinoi completamente estinto), senza pronunciare mai parole come camorra, omicidi, tradimento che pure sono lo sfondo evidente di questa tragedia tutto sommato molto classica.  Ed è in questo che il film di Cupellini non arriva a fare il salto di qualità: non riuscendo ad opporre quasi mai al classicismo dell’impianto drammaturgico uno sperimentalismo nella messa in scena (o più semplicemente una forte cifra personale) che faccia emergere il film dalla “medietà” dove irrimediabilmente va confinato.

Ci si chiede il perché sia così difficile in Italia trovare nuovi percorsi stilistici, nuove sperimentazioni sul linguaggio filmico o nuove riformulazioni dei generi. Ci si chiede il perché sia diventato così difficile costruire un immaginario dal forte impatto emotivo. E il fatto che questo film disegni in maniera dignitosissima un percorso circolare di dannazione e di duplice paternità tradita, non fa che accentuare il rammarico per un giovane cinema italiano che fa una fatica immensa a fare quello che il cinema dovrebbe sempre fare: coinvolgere.

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