"La scuola è finita", di Valerio Jalongo

Valeria Golino - La scuola è finita di Valerio JalongoNon bastano l'ostentazione della forma da film di denuncia sociale e un  utilizzo della macchina a mano che è puro manierismo a salvare questo film di Valerio Jalongo, che finisce per rivelarsi per quello che è: un'opera profondamente convenzionale. Alla presenza di una realtà da raccontare non si accosta la presenza di uno sguardo in grado di farlo e – soprattutto – non emerge con chiarezza una personale idea di cinema

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Valeria Golino - La scuola è finita di Valerio JalongoChe la scuola sia luogo prediletto da tanto cinema per la dinamicità delle situazioni che prendono vita al suo interno e per la possibilità di focalizzare su un eterno incontro-scontro generazionale tra alunni e docenti non è certo una novità, e in questo senso il film di Valerio Jalongo La scuola è finita non aggiunge davvero nulla a tante produzioni precedenti e non ha certo la forza di un’opera come A scuola di Leonardo Di Costanzo che è capace, pur scegliendo la forma del documentario, di lasciar emergere dai fatti un filo narrativo coinvolgente che ha tutta l’aria di non essere per nulla predeterminato. Al contrario, il film di Jalongo sembra essere troppo pensato e finisce per apparire come un’operazione di riempimento tra un punto A di inizio e un punto B di fine rigidamente fissati.

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Il teatro degli eventi è l’istituto Pestalozzi di Roma, non uno dei tanti licei dall’aria rassicurante, ma una struttura fatiscente retta da muri scalfiti, forati e scarabocchiati. Protagonista della storia è Alex Donadei, un ragazzo che non sembra riuscire a trovare terreno solido sotto i propri piedi e che vede nell’ “impasticcamento” la sola possibilità di fuggire la noia, la solitudine e il peso di una tormentata situazione familiare. Due professori sembrano più interessati degli altri alla sua sorte, la professoressa Daria Quarenghi(Valeria Golino) e il professor Aldo Talarico (Vincenzo Amato), la prima per istinto materno e il secondo perché, scorgendo il talento musicale del ragazzo, spera di colmare attraverso di lui il frustrante vuoto di una mancata realizzazione personale.

Il problema, con una trama di questo tipo, sta nel saper giocare abilmente sul confine che separa il dato reale dallo stereotipo, confine che spesso si finisce per travalicare con la presunzione di voler essere “onesti” e di voler fedelmente rappresentare una realtà che è già di per sé stessa notevolmente stereotipata. E se l’obiettivo dell’autore era quello di rappresentare la noia di una scuola sempre troppo uguale a sé stessa e incapace di modellarsi per accogliere le esigenze e le qualità meno convenzionali degli alunni, il risultato che ottiene è quello di suscitare una profonda noia nello spettatore che continua a sperare in un cinema italiano meno uguale a sé stesso e capace di modellarsi su una realtà sociale che ha bisogno di nuove forme per essere raccontata. E non basta l’utilizzo della macchina a mano – puro manierismo e messa in evidenza della forma – a mascherare l’anima profondamente convenzionale di questo film. Le potenzialità dell’immagine si esauriscono fin troppo presto e quel che resta è solo storia (parole, parole, parole direbbe qualcuno…). Neanche le potenzialità dell’ambiente vengono sfruttate a pieno, tanto che esso non riesce mai ad interagire davvero con la storia e viene relegato sullo sfondo costringendoci alla superficiale contemplazione della sua degradazione. E, se è vero che nel film di Jalongo non manca certo una realtà da mettere in scena, è tuttavia da registrare la mancanza di una visione di questa realtà, l’assenza di uno sguardo e – forse – addirittura l’assenza di una personale idea di cinema.

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