“Kill Me Please”, di Olias Barco

kill me please
Determinato a tirar fuori l’ironia e lo sberleffo dal morboso, il sinistro, il rimosso, Barco compone un apologo nichilista sulla vacuità dell’ego in cui sceglie di mostrare solo ciò che serve al suo scopo, lasciando spesso fuori campo azione e spiegazione, e immergendo tutto in un bianco e nero sgranato che conferisce all’insieme una qualità pittorica gelida e straniante. Marc'Aurelio d'Oro per il miglior film all'ultimo Festival di Roma
 
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Kill Me Please

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Vanitas vanitatum et omnia vanitas: non è sul suicidio, né sull’eutanasia, ma è sull’umano narcisismo che Olias Barco vuole (far) ridere in questa farsa macabra che va in scena sull’austero palcoscenico di una clinica singolare, microcosmo lindo e accogliente protetto da quieti boschi innevati, dove un circo di varia umanità approda in cerca di una mano caritatevole che la liberi dal peso di vivere. C’è chi ha perso la voce e chi la moglie in una partita di poker, chi è stanco di una vita da malato e chi finge un cancro in fase terminale per essere ammesso nella clinica, ma nessuno è realmente impossibilitato a compiere da solo l’estremo gesto. Sono la paura, la viltà, l’infantile bisogno di attenzioni le motivazioni che li spingono sotto l’ala protettrice dell’affabile e solerte dottor Kruger, mente ideatrice del progetto, pronto ad asciugare lacrime e a soddisfare capricciose richieste. Nulla, o quasi, ci viene detto sulla storia della clinica e sugli affari di Kruger, sul perché sul posto sia presente un’agente della finanza o su chi stia tramando contro l’insolita istituzione. C’è solo l’agitarsi insensato e grottesco di chi, incapace di trovare un senso alla vita, pretende di darlo alla morte, facendone un cerimoniale ordinato da condire con gli ultimi terreni piaceri e mandare giù con un bicchiere d’acqua. Uno scenario di artefatto e precario equilibrio su cui si affacciano, come una nemesi, l’imprevedibile e il caos, nella forma di un inspiegabile incidente prima, di misteriosi assassini poi. Scippati del proprio personale happy end già scritto, gli aspiranti suicidi, comicamente, fuggono inorriditi di fronte all’anarchico agire di una Mano Invisibile – viene in mente il titolo di un vecchio albo di Dylan Dog, Il sorriso dell’Oscura Signora –, che rimescola le carte risucchiando tutti, pazienti e dottori, nel medesimo allucinato balletto e prendendosi la propria rivincita su ogni illusione di controllo e razionalizzazione. Determinato a tirar fuori l’ironia e lo sberleffo dal morboso, il sinistro, il rimosso, Barco compone un apologo nichilista sulla vacuità dell’ego in cui sceglie di mostrare solo ciò che serve al suo scopo, lasciando spesso fuori campo azione e spiegazione, e immergendo tutto in un bianco e nero sgranato che conferisce all’insieme una qualità pittorica gelida e straniante. Il suo umorismo è nervoso, eccessivo, inopinato; nutre di paradosso un racconto cinematografico sfrenato e corrosivo. Non sempre Barco riesce a reggere le fila di una materia convulsa che a tratti sembra sfuggirgli di mano, ma ha sufficiente personalità da colpire nel segno, lasciando una risata in gola e uno strano disagio nello sguardo, mentre il sipario cala sulle note e i versi sanguigni della Marsigliese.

 
 
Titolo originale: id.
Regia: Olias Barco
Interpreti: Aurélien Recoing, Virgile Bramly, Daniel Cohen, Virginie Efira, Bouli Lanners

Distribuzione: Archibald Enterprise Film
Durata: 95’
Origine: Belgio/Francia, 2010

 
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