TORINO 28 – "Shekarchi (The Hunter)", di Rafi Pitts (Festa mobile)

the hunter
La cattività che Rafi Pitts racconta nel suo ruvido e rarefatto atto di denuncia è uno stato permanente ed espropriante che non risparmia nessuno. Non solo la sconfitta di Ali, anche i due poliziotti che lo hanno arrestato sono entrambi perduti all’interno di un sistema imploso, dove a dominare è solo la legge della prevaricazione che oppone l’uomo a l’uomo, in un labirinto di morte che non ha vie d’uscita

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the hunterE’ un movimento di allontanamento, alla scoperta di una fotografia scattata nel 1980 ad aprire Shekarchi. I pasdaran, i guardiani della rivoluzione sulle loro motociclette troneggiano sopra una bandiera americana distesa sulla strada. Oggi, in Iran ci domandiamo se la Rivoluzione non ci sia stata sottratta, dice Rafi Pitts. Ma in Iran le domande non sono più ammesse. Ad interrogare, senza dare risposte, è una volontà che impone solo un movimento verticale, dall’alto verso in basso. Nei giorni precedenti alle elezioni del 2009 (il film è stato girato durante la campagna elettorale presidenziale e lascia trasudare tutto lo stato di tensione delle strade di Teheran), la voce dell’Ayatollah Khamenei risuona, quasi beffarda, promettendo un cambiamento, ma ad Ali, il guardiano esiliato dal lavoro diurno per il suo passato sospetto, interpretato da Rafi Pitts, viene concesso di esistere solo uno stato di perenne e frustrante attesa, in una disfunzionalità che diventa la materia stessa del film. La pressione dell’immobilismo, la linfa del sistema protetta e promossa da funzionari kafkiani – i poliziotti e i responsabili di un ospedale – è l’unico spettro che soffia in una morsa di cemento, la Teheran di Shekarchi. Ali è pericolosamente sospeso sull’orlo di un precipizio, in costante tensione tra l’insofferenza silenziosa che si agita nelle profondità delle sue viscere e il desiderio di tornare a casa, dopo il lavoro, per abbandonarsi tra le braccia della figlia e della moglie.
Fino alla rottura di questo equilibrio precario, quando al suo ritorno Ali scopre che non c’è più nessuno ad aspettarlo. Sara è rimasta uccisa nel fuoco incrociato tra dimostranti e polizia e la loro figlia di sei anni è scomparsa nel nulla. Tra le strade di una città che Rafi Pitts stritola nel silenzio, Ali si spinge, con la sua rabbia rappresa, sul marciapiedi dove è ancora disegnata la sagoma del corpo di Sara e nella camera della figlia, tra disegni e pupazzi, alla ricerca di una presenza residuale alla quale aggrapparsi per non cadere nel vuoto. Ma quello che trova è solo un altro cadavere in un obitorio. Nell’esplosione della reazione di un uomo che non ha più nulla da
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the hunterperdere e alla quale Rafi Pitts conferisce tutta la gravità irrimediabile di un gesto definitivo, Ali risale allora lungo quella linea verticale che regola la rigida e sospesa geometria di Shekarchi e, sovvertendo il suo inalterabile ordine, si erge sopra un’altura che domina l’autostrada mirando in maniera casuale alla sua preda, per infine identificare il suo nemico nell’emanazione dell’autorità, i poliziotti che cadono sotto i colpi del suo fucile.
C’è una netta cesura in Shekarchi. Quando la fuga di Ali viene interrotta da un elicottero che irrompe nel cielo,  ristabilendo quella rigida verticalità la cui spinta unilaterale è stata improvvisamente invertita dal folle gesto di Ali, la città lascia il posto al suo doppio, alla fisicità cadaverica della foresta. Come nella città, nella foresta non c’è vita, solo una gabbia di rami spogli che, insieme alla pioggia, schiacciano al suolo Ali e i suoi due carcerieri, i poliziotti che lo hanno raggiunto depredandolo della sua libertà. Ma la cattività che Rafi Pitts racconta senza mai dare alcuna risposta nel suo ruvido e rarefatto atto di denuncia, chiuso ermeticamente su se stesso, è uno stato permanente ed espropriante che non risparmia nessuno. Non solo la sconfitta di Ali, anche i due poliziotti, con le loro reazioni così diverse alla coercizione imposta dal sistema, sono entrambi perduti in una realtà implosa, dove a dominare è solo la legge della prevaricazione che oppone l’uomo a l’uomo, in un labirinto di morte che non ha vie d’uscita.
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