TORINO 28 – "Akma-Reul Bo-at-da/I Saw the Devil", di Jee-woon Kim (Rapporto confidenziale)

I Saw the DevilIl film sudcoreano più chiacchierato dell'anno è un affresco potente sull'ossessione che lacera l'anima, attraverso la lotta di due uomini decisi a punire il Male identificato sempre e comunque nell'Altro, qualunque siano le conseguenze. Fra horror con forte componente grafica e ricognizione lacerante sul dolore, un film intenso e indimenticabile

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I Saw the DevilIl Diavolo probabilmente! Ma non quello dell'iconografia classica, con le corna e il forcone, e nemmeno quello che ha grandi trascorsi cinematografici, possiede il corpo delle bambine e atterrisce il pubblico con urla e fiotti di vomito. No: qui siamo al di là delle simbologie, dentro al Male oscuro che lacera l'anima, diventa ossessione ed esplode con violenza indirizzandosi verso l'Altro.

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L'Altro è in effetti l'autentico territorio di coltura di quel Male che si crede sempre estroflesso, ma che in realtà è parte integrante del proprio animo. Accade pertanto che un feroce serial killer (il grandissimo Min-sik Choi del capolavoro Old Boy, e la scelta è assolutamente pertinente) rapisca e uccida una ragazza restituendone alle autorità soltanto la testa. Il di lei compagno inizia perciò una caccia all'uomo che non si contenta di trovare e catturare l'assassino. No, la promessa è quella di fargli provare lo stesso dolore inflitto all'amata e per questo il killer viene punito e poi liberato, una, due volte, in una reiterazione della cattura che interviene ogni qual volta l'uomo tenta di nuocere a nuove vittime. Più che il Diavolo, insomma, il punitore di turno è una versione perversa dell'angelo vendicatore, che però produce una autentica propagazione del Male, innescando una spirale di continui atti di violenza scissi fra le sue "punizioni" e il desiderio di rivalsa che lentamente prende strada nel killer.

In un crescendo ritratto dal regista Jee-woon con grande potenza lirica, i due proseguono il loro schema travolgendo chiunque gli si pari innanzi, ma sempre con la certezza che il mostro sia l'Altro. Ognuno dei due si sente pertanto giustificato nella sua abiezione morale dalla missione che si è imposto. Che per il cacciatore è onorare la memoria dell'amata scomparsa punendo il suo assassino; per quest'ultimo è invece una sorta di rivalsa verso un mondo che ritiene ingiusto nei suoi confronti: è sintomatico e interessante che il killer dia del folle, del pazzo o dello psicopatico a chiunque incontri. Nelle sue parole pregne di quel qualunquismo che ciascuno di noi ha sentito almeno una volta, si riflette una cultura della diffidenza e dello scontro reciproco che è latente in ogni strato e tempo dell'umanità e che in questo senso edifica un quadro sociale basato sull'odio e sul rancore sopito. A corollario intervengono gli estemporanei compagni di merende del killer, con un debole per il cannibalismo (fatto che apre interessanti incisi alla Non aprite quella porta o, per rimanere in ambiti più asiatici, alla Untold Story) e i familiari del cacciatore, che tentano inutilmente di dissuaderlo dalla missione. Su tutto una mano forte del regista, che inventa virtuosismi pazzeschi (uno su tutto: l'omicidio nel taxi con la mdp che ruota vorticosamente all'interno dell'abitacolo) e, pur non rinunciando a lasciar correre sottotraccia una percepibile ironia, non perde mai di vista la serietà drammatica dell'assunto e le conseguenze morali della lotta che i due contendenti mettono in campo. Il risultato è un affresco potente e trascinante, forte nella sua violenza esibita, ma ancor più inquieto in quegli spiragli di umanità che si affollano in una vicenda così buia. Imperdibile!

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