Jafar Panahi. Un regista contro

jafar panahi, il cerchio
Jafar Panahi rappresenta una vera e propria spina nel fianco per il governo di Teheran. Più di Naderi, più di Makhmalbaf e più dello stesso Kiarostami, il regista de Il cerchio e Oro rosso ha plasmato negli anni un modello di cinema che è oggi il più seguito in patria da tanti giovani registi clandestini. Un cinema che è capace di guardare al microscopio la società iraniana, senza generalizzazioni, attraverso le dispersive e fluttuanti traiettorie di individui comuni

 

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Molti sono i regimi totalitari – più o meno riconosciuti ufficialmente come tali – che nel corso del XX secolo e di questa prima decade del XXI hanno intessuto costanti e complesse relazioni con il cinema, riconoscendo quest’ultimo come il mezzo di espressione artistica più idoneo a modificare – in una direzione o nell’altra – il grado di consenso popolare nei propri confronti. Non sempre però ci si è serviti di esso come di uno dei principali veicoli di propaganda, talvolta – ed è questo il caso dell’attuale regime di Teheran – lo si è considerato come una minaccia, come un pericoloso strumento da tenere sotto stretto controllo perché in grado di risvegliare le coscienze e di portare alla luce l’inquietante reale celato dietro un’idilliaca apparenza.

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Jafar Panahi, in questo senso, rappresenta una spina nel fianco per il governo presieduto da Mahmud Ahmadinejad. Il cinquantenne regista di Mianeh, cittadina iraniana collocata nella regione dell’Azarbaijan Orientale, incarna in sé la doppia figura del regista stimato e premiato fuori dai confini nazionali e dell’intellettuale politicamente impegnato in patria e apertamente schierato contro il governo in carica. L’arresto e la successiva condanna nei suoi confronti hanno il sapore dell’atto intimidatorio verso chiunque intenda seguire le sue orme: verso quella generazione di registi iraniani – dai più maturi Bahman Ghobadi e Babak Payami, ai più giovani Samira Makhmalbaf e Hossein Keshavarz – che, scavalcando le rigide norme censorie imposte dall’alto, non intende rassegnarsi all’idea di un cinema incatenato alle colonne dei palazzi del potere. E, in effetti, più di Amir Naderi, più di Mohsen Makhmalbaf e anche più di Abbas Kiarostami, sembra essere proprio Jafar Panahi ad aver plasmato negli anni un modello di cinema che è oggi il più frequentato in patria da questi registi clandestini che non si lasciano intimidire da minacce e censure varie. Panahi, realizzando film come Il cerchio, Lo specchio e Oro rosso, ha inventato un cinema che sa guardare la società iraniana al microscopio, senza generalizzazioni, attraverso le dispersive traiettorie di individui comuni: traiettorie fluttuanti che prendono forma su uno spazio di evidente derivazione kiarostamiana, dove il tutto esiste solo come somma delle parti e prende forma sulla scia del girovagare dei personaggi.

Ma se la pratica filmica di Kiarostami conduce verso l’idea di uno sguardo in movimento, quella di Panahi eleva l’individuo umano, nel suo essere carne e sangue, a perno centrale di un cinema che è pensabile soltanto nei termini di corpo in movimento, dove lo spazio fisico-geografico diventa spesso la metafora di una penalizzante condizione sociale – come nel caso della contrapposizione tra “città alta” e “città bassa” in Oro rosso – o sessuale – come accade in Offside, dove il perimetro dello stadio marca il confine di un universo maschile inaccessibile alle donne.

Il cinema di Panahi inizia con lo spaesamento che si riflette sul volto di una donna nel bellissimo piano-sequenza che apre Il palloncino bianco. Un volto che si mescola ad altri volti, un corpo che incrocia altri corpi nelle strade di Teheran, quelle stesse strade che film dopo film saranno segnate dall’incertezza, dall’instabilità, dall’ambiguità dei rapporti interpersonali. Si fugge dalle restrizioni dello spazio domestico per perdersi tra le insidie dello spazio urbano, dove l’atto di fidarsi equivale sempre ad un affidarsi alle sorti del destino nella speranza di non cadere nell’inganno, come imparano a proprie spese la piccola Razieh di fronte all’incantatore di serpenti che prova a rubarle i soldi ne Il palloncino bianco e, più drammaticamente, una delle donne protagoniste de Il cerchio che, in preda alla disperazione per aver abbandonato in strada la figlioletta, accetta il passaggio di uno sconosciuto che si rivela un poliziotto pronto ad additarla come prostituta e ad arrestarla.

Apparire ed essere non sempre coincidono, dunque, anche perché talvolta camuffarsi per sembrare altro da sé diventa l’unico modo per aggirare i pregiudizi radicati nella coscienza collettiva e trasformati rapidamente in rigide norme sociali o giuridiche. È questo il caso del protagonista di Oro rosso Hossein e della sua promessa sposa, che per accedere in una gioielleria della città alta devono travestirsi da benestanti, indossando abiti eleganti che non riescono comunque a nascondere del tutto le loro umili origini, tanto da scatenare un incolmabile senso di frustrazione che di lì a poco degenererà in un disperato omicidio-suicidio; ma qualcosa di simile accade anche nell’ultimo lungometraggio del regista, Offside, dal momento che le giovani protagoniste sono costrette a mascherare la loro femminilità nel tentativo di ingannare i poliziotti e poter accedere allo stadio per assistere dal vivo alla partita di calcio tra Iran e Bahrain, a dimostrazione della centralità di un corpo che è manifestazione fisica della propria condizione sociale/sessuale sfavorevole e che pone un serio problema di identità individuale.

Questi sono i motivi per cui impedire che questo cinema possa crescere, moltiplicarsi e generare nuovi frutti è divenuta una delle maggiori ossessioni del governo iraniano, e Jafar Panahi sta pagando per tutti secondo l’amara logica del “colpirne uno per educarne cento”. La condanna a sei anni di reclusione e il divieto di realizzare film per i prossimi venti anni sono atti deprecabili, tremendi, ingiustificabili, ma allo stesso tempo non fanno che ribadire la forza del cinema e, per estensione, la forza dell’arte tutta. L’arte che analizza. L’arte che denuncia. L’arte che porta a galla il marcio che sta deteriorando dall’interno il cuore di un’intera società. L’arte che attraverso sé stessa continua a reclamare il proprio diritto di esistere.

Nato a Mianeh l’11 luglio del 1960, Jafar Panahi è entrato lo scorso anno nelle prime pagine di giornali e opinione pubblica per esser stato arrestato il 2 marzo 2010 in seguito alla sua partecipazione pubblica ai movimenti di protesta contro il regime iraniano. Scarcerato il 24 maggio su pagamento di una cauzione e in seguito alle costanti sollecitazioni dei movimenti a difesa dei diritti umani e del mondo del cinema internazionale, Panahi è insieme ad Abbas Kiarostami – di cui è stato assistente e collaboratore – uno dei più alti esponenti della cinematografia iraniana che negli anni Novanta s’è segnalata a livello mondiale per la sua propensione all'indagine sociale e psicologica, e per un approccio formale profondamente "neorealista". L'esordio dietro la macchina da presa è datato 1995. Si tratta de Il palloncino bianco, che al Festival di Cannes vince la Caméra d'or. La consacrazione internazionale arriva nel 2000 con il Festival di Venezia, dove vince il Leone d'oro con Il cerchio, mentre nel 2003 è la volta di Oro rosso, che si aggiudica a Cannes il premio della giuria Un certain regard. Offiside nel 2006 vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino. Lo scorso 20 dicembre viene condannato a 6 anni di reclusione, più l’impossibilità di realizzare film e lasciare l’Iran per almeno 20 anni.

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