CANNES 64 – “Sleeping Beauty”, di Julia Leigh (Concorso)

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La pretesa scientifica della Leigh si traduce in una regia fredda e distaccata, fatta di piani per lo più fissi, inquadrature frontali e ripetitive. Uno sguardo che solo apparentemente si dichiara neutro e oggettivo, per rivelarsi invece profondamente autoritario. A tal punto da togliere respiro e spazio a qualsiasi fibrillazione che, dall’intimo dei personaggi, prova ad affacciarsi nella superficie asettica delle immagini. E da opprimere quanto di potenzialmente viscerale c’è nell’interpretazione di Emily Browning
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sleeping beautyLucy è una ragazza ‘tuttofare’. Nel vero senso della parola. Per soldi, il più delle volte. Si sottopone a terribili test medici, fa le fotocopie in un grande ufficio e le cameriera in un ristorante, accetta incontri sessuali a pagamento… Finché non entra in un giro torbido di cameriere/intrattenitrici per clienti di lusso. Il tutto vissuto nell’indifferenza più totale. Almeno apparentemente. Opera prima fortemente sostenuta da Jane Campion, Sleeping Beauty, nonostante il titolo da ‘favola’, ha ben poco di fiabesco e romantico. Certo: ambisce apertamente alla metafora (individuale e sociale), ma per il resto assomiglia più a un saggio scientifico, un documento etologico talmente oggettivo da assomigliare a una condanna. L'australiana Julia Leigh, anche autrice della sceneggiatura, sembra non preoccuparsi affatto dei perché, delle motivazioni e degli obiettivi della sua Lucy. Perchè si dà tanto da fare? Semplicemente per mantenersi aagli studi e pagare l’affitto? Da cosa nasce la sua indifferenza, la sua disponibilità quasi masochistica a farsi vessare, rifiutare, degradare in tutti i modi? Sei licenziata. Va bene. Vuoi una pista di coca? Perché no. Vuoi fare sesso? Ok. Gli unici sussulti di vitalità, reazione, dolore, umanità sono provocati da un amico tossicodipendente, Birdmann. Ma per il resto, Lucy è un ‘essere’ senza passato e senza futuro, una bell’addormentata qualsiasi da studiare nei comportamenti e nelle abitudini, quasi fosse uno dei marsupiali di cui è appassionato l’amico. E così, attraverso la cavia, arrivare a raccontare un mondo fondamentalmente amorale e senza più orizzonti. Questa pretesa scientifica si traduce, per forza di cose, in una regia fredda e distaccata, fatta di piani per lo più fissi, inquadrature frontali e ripetitive. Uno sguardo che solo apparentemente si dichiara neutro e oggettivo, per rivelarsi invece profondamente autoritario. A tal punto da togliere respiro e spazio a qualsiasi fibrillazione che, dall’intimo dei personaggi, prova ad affacciarsi nella superficie asettica delle immagini. E da opprimere quanto di potenzialmente viscerale c’è nell’interpretazione di Emily Browning. E, alla fine, è proprio questo scarto tra la freddezza intellettuale e costruita della Leigh e l’esplosività pretesa, ma inespressa della materia a fare di Sleeping Beauty un film di irritante distanza. Irritante, non disturbante.
 
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