CANNES 64 – “Hearat Shulayim” (Footnote), di Joseph Cedar (Concorso)

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Per la prima volta in Concorso a Cannes il regista israeliano, con il suo quarto lungometraggio. Commedia che mette in scena la relazione conflittuale tra un padre e un figlio, entrambi ricercatori al Dipartimento di Talmud dell’Università ebraica di Gerusalemme
. Opera che smarrisce velocemente il tratto saliente dell'umorismo e della comicità ebraica: l'autodelazione, il ridere di se stessi, dei propri guai, delle proprie angosce e paure anche sul limitare dell'abisso o della tomba

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footnotePer la prima volta in Concorso a Cannes il regista israeliano, con il suo quarto lungometraggio. Commedia che mette in scena la relazione conflittuale tra un padre e un figlio, entrambi ricercatori al Dipartimento di Talmud dell’Università ebraica di Gerusalemme, proprio dove l’autore ha compiuto gli studi di filosofia e storia del teatro. I protagonisti, eccentrici in modo diverso, rappresentano due visioni opposte della ricerca in teologia: il padre, un purista rigoroso e misantropo che non accetta l’approccio risolutamente più moderno di suo figlio. Le cose si complicano quando un equivoco lascia credere al padre di aver ottenuto un’importante riconoscenza dal suo Paese, dopo essere stato dimenticato per anni dalla comunità scientifica e aver assistito alla progressiva scalata del figlio. Dal titolo (Note a piè di pagina), si evince anche il richiamo ad una vita fatta di occasioni mancate e di accantonamenti. Il regista, con una cadenza sarcastica e umoristica e attraverso una serie di aneddoti, racconta di rivalità, rancori, gelosie. Lo fa anche con l’uso del capitolo e tecniche di montaggio che sembrano sfogliare il passato dei protagonisti come pagine di letteratura filmata. Rasenta il grottesco, inserendo gag divertenti, ironizzando sull’attuale momento politico e sociale del suo Paese, senza mai però perdere di vista il registro leggero e sottile del sorriso. Tutto questo però, a lungo andare, stanca, perché non si trovano effettive vie di fuga da un contesto ben scritto, ben recitato e innegabilmente calibrato (ad eccezione della musica, ingombrante e ridondante). Sembra smarrirsi velocemente anche il tratto saliente dell'umorismo e della comicità ebraica: l'autodelazione, il ridere di se stessi, dei propri guai, delle proprie angosce e paure anche sul limitare dell'abisso o della tomba, mai cedendo alla logica della volgarità o della violenza. Attitudine nata dalla convergenza di tre particolari fattori: esilio, sradicamento, persecuzione, condizioni esistenziali tutte difficili ma foriere di eccezionali sollecitazioni, alle quali il regista sembra ispirarsi, in un contesto più privato. “Se hai delle macchie di sangue sulla maglietta, probabilmente il bucato è l'ultima delle tue preoccupazioni”. È proprio questo che nel film però manca: prima di scrostare il superfluo, bisognerebbe forse chiedersi il senso dello stesso. Il “Riso Kosher” scuoce definitivamente in un finale inconcludente e apparentemente favolistico, smarrendo il barlume di una via più salvifica e più bella all'accoglienza di un robusto umorismo autodelatorio. Proprio come una passeggera anestesia del cuore…
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