CANNES 64 – “Les neiges du Kilimandjaro”, di Robert Guédiguian (Un Certain Regard)


Guédignian fa un piccolo film sul terrore di aver tradito i propri ideali ed essere "divenuti borghesi", pensandoci su con il tono crepuscolare di chi ha il tempo di riflettere davanti a un bicchiere di pastis: siamo così convinti di poterlo trattare con la sufficienza che si riserva a un cinema accessorio e fuori tempo, come certi racconti primopomeridiani dei nostri nonni a tavola, oppure vogliamo per un attimo accettare l’invito che ci pone e avere la pazienza di ascoltarlo?

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Utilizzano un linguaggio che ormai è possibile sentire soltanto all’interno di un certo cinema francese i personaggi di Guédiguian, espressione di un immaginario talmente giusto, onesto e calorosamente sincero a cui non si può che guardare con un accondiscendente, tenero affetto. E’ difficile infatti capire da quale versione della nostra realtà vengano fuori i protagonisti di questo Les neiges du Kilimandjaro, un sindacalista e la sua consorte, coniugi di mezza età, che ancora si interrogano sul peccato probabile d’essere "divenuti borghesi", con la villetta con giardino per i barbecue, le gite al mare della domenica, l’automobile, le serate a giocare a carte con la famiglia della sorella di lei, e una squadra di nipoti forniti dai due bravi figlioli.
Jean-Pierre Darroussin dona un’anima grande al personaggio di Michel, rappresentante sindacale talmente puro e buono da auto-licenziarsi insieme ai 20 compagni tagliati fuori dal lavoro al porto che ha rappresentato per decenni la sua vita, e che svolgeva con il fraterno amico Raoul. E’ una questione di coscienza, inserirsi in quella “lotteria” per i nomi da sbattere fuori: eppure Michel e i suoi compari coetanei non vedono nelle nuove generazioni lo stesso slancio verso la conquista di una etica ed equità sociale, come se i giovani non facessero che dare per scontate quelle libertà e garanzie che la generazione di Michel ha guadagnato con dure lotte e contestazioni, e che spesso li ha portati a scelte e decisioni estreme come quella del protagonista. Davvero nessuna gratitudine brilla negli occhi dei loro successori?
Sono realmente basati su questa e altre discussioni simili i dialoghi del film di Guédignian, seguiti dal cineasta con una regia discreta che osa unicamente sul versante del commento musicale, un po’ confusamente affidato a una manciata di stili e suggestioni differenti. Quando uno degli altri colleghi licenziati di Michel, un ventenne con due fratelli piccoli a cui badare senza alcun altro aiuto, deruba con una violenta rapina in casa le due coppie di attempati protagonisti di circa 5000 euro, la questione morale diventa pressante: punire o meno il compagno-che-ha-sbagliato per il suo vile gesto da fuorilegge, o accettare il furto come una sorta di riappropriazione proletaria, punizione per aver tradito i propri ideali egualitari a favore di una tranquilla serenità middle class? E soprattutto che colpa e che destino hanno i due fratellini dell’imberbe scapestrato?
Guédignian fa un piccolo film su queste cose qui, con il tono pensieroso e crepuscolare di chi ha il tempo di riflettere davanti a un bicchiere di pastis: siamo così convinti di poterlo trattare con la sufficienza che si riserva a un cinema accessorio e fuori tempo, come certi racconti primopomeridiani dei nostri nonni a tavola, oppure vogliamo per un attimo accettare l’invito che ci pone e avere la pazienza di ascoltarlo?

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