CANNES 64 – “Halt Auf Freier Strecke (Stopped on Track), di Andreas Dresen (Un Certain Regard)

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Il regista tedesco di Settimo Cielo e Catastrofi d’amore, affronta ancora una tematica già toccata in questo avvio festival: il male degenerativo, come il cancro maligno al cervello, l’ineluttabilità dell’esistenza che si consuma inesorabilmente senza pietà. Non è solo uno sfogo, un esercizio sul dolore, una seduta psicanalitica di fronte allo schermo bianco, perché fuori nevica ancora. Indifendibile perché inattaccabile, una guida tesa e scabra, mai totalmente addolcita dalla compassione per la miseria e la grandezza dei sentimenti umani

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darsenIl regista tedesco di Settimo Cielo e Catastrofi d’amore, affronta ancora una tematica già toccata in questo avvio festival: il male degenerativo, come il cancro maligno al cervello, l’ineluttabilità dell’esistenza che si consuma inesorabilmente senza pietà. Un uomo sulla quarantina scopre di avere ormai solo pochi mesi di vita. La sua famiglia dovrà prendersi cura di lui fino alla fine. Morire in pieno volo, proprio come nel meraviglioso Restless di Gus Van Sant. Prima c’è la disperazione, dopo sopraggiunge in diniego, la voglia di sentirsi ancora utile, infine i rapporti cambiano inesorabilmente e ci si perde nei labirinti della mente, della memoria devastata, della condanna a spegnersi. Tutto questo mostra il film, anche con un certo sapere manualistico. Interessante infatti è la parte in cui cambia il rapporto tra il degente e i suoi famigliari, perché da il senso di come, anche nella tragica e spaventosa prospettiva futura, si possa provare a creare un relazione completamente nuova con una persona che non ha più appigli con il presente ma conserva nel profondo un legame, un frame, una scheggia parentale, carnale. Che si può scrivere di un film che è un blocco di dolore così 'parlante' e dolorosamente parlante? Si coglie la sofferenza nella trincea della malattia, in cui ogni singola parola è spremuta dalla più disumana fra le possibili decadenze dell'esistere e dalla più umana espressione dell'esistere, quella di passare le ore, i giorni, i mesi, accanto a quel decadimento, senza sbandierare doverismi o vittimismi? Che cosa si può dire dopo aver visto una così rabbrividente verità: una verità che ha una faccia atroce, quella di un male che ti lascia in vita senza vivere, che ti regredisce negando a te stesso il tuo patrimonio di esperienze, di amore, di lavoro, di fatica, di successi, di vanità conquistate, di passioni, di certezze e di dubbi, e una faccia delicata, capace di grazia nel disastro, quella di chi sa che si può pienamente vivere anche attraverso il male, l'annientamento, giorno dopo giorno, della persona amata? È un’opera così spaventosamente autentica, da essere inattaccabile, a volte temibilmente inavvicinabile. Non è uno sfogo, un esercizio sul dolore, una seduta psicanalitica di fronte allo schermo bianco, perché fuori nevica ancora. Saltano dinanzi a tali espressioni narrative e visive tutte le coordinate critiche: si potrebbe sottolineare l’aspetto scarno e realistico della storia, quasi come se non esistesse sceneggiatura e scenografia convenzionali. Puerile. È così indissolubilmente legato al dramma psicologico e fisico che cessa di essere un puro stato patologico e si trasforma in stato della mente (le allucinazioni del protagonista e il suo peregrinare riprendendo e riprendendosi con iphone) del cuore e dei sensi. Il film segue un binario prepotentemente segnato (come quello della moglie tramviere), che non è determinato a seguire e deviare anche verso la sofferenza umana fatta di sentimenti traditi, di aspettative deluse, di ruoli irrisolti che la malattia esaspera ma aiuta a mettere a nudo rompendo il muro di silenzio che li circonda.  Sarebbe stato un altro film, forse migliore…  Una guida tesa e scabra, mai totalmente addolcita dalla compassione per la miseria e la grandezza dei sentimenti umani.  
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