CANNES 64 – “En ville”, di Valérie Mréjen, Betrand Schefer (Quinzaine des réalisateurs)

en ville
Opera prima dei due registi girata in 16 mm, un percorso sentimentale mostrato come se fosse una video-installazione, dove nella staticità si rivelano gesti apparentemente casuali e corrispondenze nascoste. Tra perdite e ritrovamenti forse c’è troppo Eustache, ma lo sfondo ha un autentico respiro e il finale apre a 360° nuovi orizzonti, estetici oltre che narrativi

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en villeC’è una foto-manifesto di Iris che a un certo punto si vede in En ville, opera prima di finzione di Valérie Mréjen e Betrand Schefer. Quasi una video-istallazione che entra nel film, segno estetico dichiarato di inquadrature chiuse, impermeabili, che intrappolano quasi quei dialoghi che non possono uscire verso l’esterno.  Sullo sfondo una città portuale nella quale si svolge la vicenda di Iris, un’adolescente di 16 anni che incrocia per caso Jean, un fotografo di circa 40 anni e questo incontro condizionerà le loro vite. Girato in 16 mm, una storia che si rivela attraverso gli stacchi e una staticità nella quale ricorrono gesti apparentemente casuali, corrispondenze nascoste, piccole rivelazioni. Il set è quasi quello tipico di una città da musical, un ritorno di Jacques Demy privato però dei suoi accesi colori, tracce di una Nouvelle Vague filtrata attraverso la videoarte e un’iniziazione sentimentale in cui il desiderio resta fuori-campo, esempio di un cinema sobrio nella capacità di accennare appena senza mostrare tutto. L’incontro tra i due protagonisti, la loro esistenza che scorre parallelamente anche dopo che si sono conosciuti, hanno una presa quasi documentaristica in un lavoro come En ville dove invece la recitazione e la costruzione dei personaggi hanno un loro peso specifico, che unisce attori professionisti e non e segue la protagonista Lola Créton, che arriva da Barbe blue di Catherine Breillat, più come un’icona che un corpo, oggetto da fotografare dove però la sua storia prende vita anche solo guardando il suo volto fisso come in Jerry Schatzberg. A tratti forse nel passaggio tra un piano e l’altro, nelle dinamiche sospese dei rapporti tra i personaggi tra perdite e ritrovamenti, si ha il sospetto che i due cineasti guardano troppo da vicino La maman et la putain di Jean Eustache, sempre nel la contrapposizione, strada/interno e ancora strada/interno. Ma lo sfondo ha un suo autentico respiro, come quello dei binari dei treni e soprattutto nel finale parigino sembra invece cominciare di nuovo un altro film, forse una commedia adolescenziale sentimentale dove un passato è già stato vissuto.

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