CANNES 64 – “Hors Satan”, di Bruno Dumont (Un certain regard)

hors satan
Il cinema di Dumont è una messa, un rito sempre uguale e codificato, una cerimonia spettacolare che, ripetendosi a memoria, finisce per smarrire il senso profondo delle proprie origini e dei propri simboli. Ma, aldilà di questi limiti, francamente insormontabili, questa volta le immagini sembrano ribellarsi, per farsi attraversare da personaggi davvero in movimento. Non più meri strumenti di un assunto prestabilito, ma pure traiettorie che tagliano e si perdono nello spazio, senza lasciare intendere l’origine del loro moto né la sua direzione
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hors satanUn vagabondo (David Dewaele), laconico e misterioso, si ritrova in un piccolo villaggio di campagna e si lega a una ragazza. Lei ha problemi con il patrigno e lui pensa bene di risolvere la cosa drasticamente. Quel che va fatto, va fatto, dice. E, per questo, non esita a regolare i conti anche con un guardaboschi. Ma, oltre a dispensare morte, il vagabondo dona vita: a una bambina ‘posseduta’ non si sa bene da cosa, a una viaggiatrice in cerca di avventure, alla stessa ragazza che lo segue fedelmente. Il tutto tra camminate e camminate, peregrinazioni infinite tra il verde della campagna, richiami sessuali, tentazioni respinte e aspirazioni mistiche, miracoli e crudeltà, scarni dialoghi e una messinscena che ambisce all’essenzialità disadorna della verità oltre il velo dell’apparenza. Come sempre Dumont vola alto, senza ricordarsi di lasciare a terra la zavorra di un apparato simbolico e retorico che rivela, a ogni istante, tutta la sua risibile artificiosità, il suo didascalismo da catechesi ‘eretica’. Il bosco che brucia, la camminata sulle acque, il respiro salvifico e via dicendo… C’è anche il pane, mancano i pesci. Tutto per raccontare un’idea di fede e di vita oltre lo scandalo, oltrepassando il bene e il male e spiazzando ogni concezione ‘troppo umana’ di giustizia e ingiustizia. Se l’intento è quello di resuscitare, alla fine la provocazione è l’unica vibrazione chiaramente percepibile nella freddezza programmatica e schematica dell’eresia innocua di un autore che pare ossessionato dalla religione, ma è sistematicamente incapace di toccare davvero il sacro (o anche il profano) nel tessuto monotono e opaco delle sue immagini. Il cinema di Dumont è una messa, un rito sempre uguale e codificato, una cerimonia spettacolare che, ripetendosi a memoria, finisce per smarrire il senso profondo delle proprie origini e dei propri simboli. Ma, aldilà di questi limiti, francamente insormontabili, questa volta le immagini sembrano ribellarsi, per farsi attraversare da personaggi davvero in movimento. Non più meri strumenti di un assunto prestabilito, ma pure traiettorie che tagliano e si perdono nello spazio, senza lasciare intendere l’origine del loro moto né la sua direzione. Il vagabondo che arriva, cammina, uccide e salva, attraversando lentamente, ma implacabilmente il paesaggio immobile, indifferente di un angolo di mondo qualsiasi, è dotato di un’energia intima, centrifuga che lo proietta davvero hors, fuori, hors Satan, off screen, fuori schema. Viaggia da solo, dentro le immagini di Dumont, ma definitivamente aldilà dei margini ristretti del suo cinema. In uno spazio ormai davvero irreale, o forse realmente immaginario, tutto nostro.
 
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