VENEZIA 68 – "La désintégration", di Philippe Faucon (Fuori Concorso)

 La désintégration, di Philippe Faucon - venezia 68La terra promessa che si offre ad Ali, Nasser e Hamza è a portata di esplosione. Forse troppo, perchè la parabola esistenziale che li porta sull’orlo dell’abisso resta nell’ombra, e il mutamento troppo repentino, non abbastanza credibile. La désintégration tradisce il suo titolo: vediamo gli esclusi di sempre e i pezzi caduti a terra, ma non lo sgretolarsi graduale, solo il punto di non ritorno

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 La désintégration di Philippe Faucon - venezia 68 fuori concorsoLa terra promessa che si offre ad Ali, Nasser e Hamza è a portata di esplosione. Forse troppo, perchè la parabola esistenziale che li porta sull’orlo dell’abisso resta nell’ombra, e il mutamento troppo repentino, non abbastanza credibile. I tre ventenni incontrano quello che sarà il loro Caronte, Djamel, istruttore di martiri con lode, in una moschea improvvisata in un cortile nella periferia di Lille, perchè quella ufficiale semplicemente “non ci contiene tutti” – e in questo inizio c’è già l’idea lodevole di Faucon, narrare senza spettacolarizzazioni e manicheismi l’origine della ricetta forse più rappresentativa del nostro secolo: la minaccia del terrore, il meccanismo dell’esclusione, la retorica del nemico che si trasforma in arma.

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Da principio, il film c’è: rabbia e vendetta si covano proprio in una stanza nuda tra quattro pareti, non in un tempio. L’idea della vendetta definitiva che si rivolge contro se stessi si accarezza in bagno di fronte allo specchio, negli ambienti domestici, sui marciapiedi, in palestra. Questo è vero. Ma una quarantina di minuti sono pur sempre troppo pochi per descrivere efficacemente la parabola dell’adesione al martirio. Pochi minuti ci separano dal ritratto di Ali (Rachid Debbouze) come di un ragazzo equilibrato, alla fine degli studi, fiducioso rispetto alla possibilità di trovare uno stage come i compagni – affettuoso con la madre e la sorella, un fratello (Kamel Laadaili) che è la prova vivente della possibilità di contatto fisico e emotivo tra diverse culture – alla sua trasformazione improvvisa, e non del tutto giustificata, in fanatico oltranzista.

Racconta Faucon in conferenza stampa che il titolo La désintégration rimanda all’ironica riproposizione di un termine che ha finito per svuotarsi di significato: “integrazione”, da parte dei figli di famiglie arabe di seconda o terza generazione, ingabbiati in una teorica identità francese che nella pratica li esclude. I loro nonni e genitori si sono spezzati la schiena tra i lavori più umili, sacrificandosi per concedere loro un futuro, ma questa aspettativa ha soltanto peggiorato le cose, la collera e il nichilismo di chi si trova un muro più ipocrita e invisibile davanti.  “Da oggi non siete nè francesi, nè arabi: siete solo musulmani, i soldati di Dio”: il reclutatore di giovani martiri, Djamel (Yassine Azzouz, bravo ma forse non abbastanza carismatico per la parte) risolve così questo paradosso. Però manca qualcosa, qualche istante, quella crepa che non si può sanare quando arriva, perchè sia credibile la trasformazione; perchè i tre ragazzi si possano immergere all’improvviso nella lettura del Corano ed arrivare alla fredda determinazione di morire.

In La Haine, insuperato film del ’95 sulla banlieu parigina, quasi un’ode a una generazione smarrita e in costante debito d'ossigeno – Le monde est à nous –  con un tocco più leggero e potente Mathieu Kassovitz riusciva a delineare il percorso che conduce dalla violenza sociale a quella individuale; Faucon tenta il percorso inverso, mostrando le paure, le insofferenze e le privazioni di un piccolo nucleo familiare e dei personaggi che gli gravitano intorno per spiegare la marea dell’odio collettivo. Forse a causa di uno stile un po' trascurato (povero ma non essenziale, com’era per esempio quello del Kechiche di Tutta colpa di Voltaire) e della necessità di comprimere un mutamento psicologico lacerante in una storia che corre rapidamente verso il suo finale, La désintégration tradisce il suo titolo: vediamo gli esclusi di sempre e i pezzi caduti a terra, ma non lo sgretolarsi graduale, solo il punto di non ritorno; malgrado la sua sete di realismo, finisce per essere più aderente alla realtà, nella sua astrazione malata, un film come Hadewijch di Bruno Dumont.

Philippe Faucon e gli attori sul set di La désintégration Peccato, perchè sulla carta il film di Philippe Faucon era interessante: il regista francese, nato in Marocco nel ’58, partito come assistente per Carax e Demy, conosce la materia che sta trattando e non è nuovo ad affrontare i temi della marginalità e dell’origine della violenza, in un percorso coerente che parla di di sessualità e di genere sullo sfondo di un’altra terra lacerata, la Bosnia (Les Étrangers) affronta da un punto di vista rovesciato, e sempre con adolescenti o giovani come protagonisti, la storica tensione tra Francia e Algeria che Haneke trattava in Cachè (Samia, La trahison) e coltiva uno sguardo che abbraccia personaggi colpiti mille volte, rialzati mille volte: prostituzione, aids, disoccupazione (Mes dix-sept ans) l’intreccio tra politica e religione (l’ultimo Dans la vie, 2007).

Forse tra i tre protagonisti, Ali, Nasser e Nicolas, quest’ultimo, che si fa ribattezzare Hamza – “come lo zio del profeta” – è la figura forse meglio riuscita delle tre: pallido, ostinato, silenzioso, come divorato dal tumore maligno della rabbia fin dall’inizio del film. Alla fine della disintegrazione, restano il suo viso e quello compassionevole della madre di Ali, i momenti in cui la vediamo affrontare il futuro con gli stracci per le pulizie; e un paio di lampi che al di là del linguaggio, dello stile, di un film magari non riuscito, ci rigettano nella realtà in un secondo: Ali che nell’istante in cui sposa la sua missione di vendetta cattura il viso del padre gravemente malato nel display del cellulare, ripetendo il gesto per gli altri due ragazzi prossimi a morire per scelta in un attentato suicida; l'obiettivo dell'attentato esplorato su street view di google, superficialmente, senza tecnologie sofisticate. A catturare la morte, insomma, sembra che sia sempre più deputata la tecnologia, ed è curioso: qualche volta quando affiora in un film, finisce per renderlo più umano.

 

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