VENEZIA 68 – “Shame”, di Steve McQueen (Concorso)

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L’ambiente domina il corpo. Ma, al tempo stesso, è solo il corpo ad avere il potere di vivificare il mondo. Il discorso di McQueen è perfettamente conseguente, inesorabile. Ma rimane una domanda, fondamentale, irrisolta. Fino a che punto si può rinchiudere il proprio cinema nel tracciato deciso e sicuro di un discorso che imprigiona i nostri occhi e le nostre emozioni? McQueen, dopo aver costruito la sua gabbia, improvvisamente la fa saltare, la incendia con i fuochi del dramma. Per un attimo sembra confessare i suoi limiti volontari. O forse è solo una nostra impressione. Un nostro desiderio

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shameIl cambio di registro è solo apparente. Perché Shame rappresenta la continuazione speculare di Hunger, film d’esordio di Steve McQueen, artista poliedrico dirompente, la prosecuzione di un discorso sul corpo contemporaneo, campo magnetico su cui agiscono e premono energie contrapposte. E’ lo stesso regista a dichiarare “Hunger narrava di un uomo privo di libertà che usava il suo corpo come strumento politico e attraverso questo atto creava la propria libertà. Shame prende in esame una persona che gode di tutte le libertà occidentali e tramite la sua apparente libertà sessuale crea la propria prigione”. E proprio questa consapevolezza estrema del valore programmatico della propria opera a definire la piena dimensione artistica di McQueen. Ma al tempo stesso delinea i confini di una prigione entro cui il suo cinema rischia di rinchiudersi. Shame è la storia di Brandon (Michael Fassbender, già protagonista di Hunger), trentenne di successo. Dolce vita newyorchese, un ottimo lavoro e la stima del capo, un ampio e confortevole loft, un fascino coinvolgente. Il problema, la ferita aperta di Brandon è la sua sindrome compulsiva, la sua travolgente ossessione per il sesso, che finisce per dettare il ritmo a ogni attimo della giornata. Prostitute, masturbazioni, film hard, hot line, incontri occasionali: il catalogo è completo. Tutte le instabilità, le nevrosi e le fragilità sepolte tornano prepotentemente a galla nel momento in cui si rifà viva la sorella Sissy (Carey Mulligan), cantante scapestrata e disperata, dalle incontrollabili tendenze suicide.

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In Shame tutto è espressione, ogni dettaglio della forma, ogni angolo di quegli ambienti perfettamente funzionali, e perciò anonimi e inanimati al pari del carcere in cui era rinchiuso Bobby Sands. E il lavoro meticoloso del regista sul corpo di Fassbender, ma più in generale di tutti i corpi (le cicatrici della Mulligan, il disperato amplesso a tre del finale), tende proprio alla costante sottolineatura del loro rapporto con questi spazi chiusi. Corpi spesso schiacciati in un angolo dell’inquadratura, corpi avvinghiati e costretti nei margini di una finestra che si offre alla vista della strada come uno schermo, una tela o uno spettacolo, corpi quasi bloccati in corsa, con una carrellata che attraversa la città. L’ambiente domina il corpo. Ma, al tempo stesso, è solo il corpo ad avere il potere di vivificare il mondo (il sangue di Sissy che tinge di rosso il bianco del bagno, gli escrementi dei detenuti ribelli che dipingono il carcere). Il discorso di McQueen è perfettamente conseguente, inesorabile. Ma rimane una domanda, fondamentale, irrisolta: se e fino che punto è possibile raccontare la liberazione attraversa l’organizzazione piena, misurata e fredda dei materiali? Rendere inevitabile l'imprevedibile? Fino a che punto si può rinchiudere il proprio cinema nel tracciato deciso e sicuro di un discorso che imprigiona i nostri occhi e le nostre emozioni? Il cinema può essere controllo assoluto? O sfugge e scarta, esce al lato, sopra, sotto, fuoricampo? McQueen, dopo aver costruito la sua gabbia, improvvisamente la fa saltare, la incendia con i fuochi del dramma. Per un attimo sembra confessare i suoi limiti volontari. O forse è solo una nostra impressione. Un nostro desiderio.
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