VENEZIA 68 – "L'arrivo di Wang", di Antonio e Marco Manetti (Controcampo Italiano)


E’ troppo facile parlare male di L’arrivo di Wang, soprattutto se ci si ferma alle carenze di scrittura, alla qualità degli effetti speciali e ad alcuni momenti esageratamente sopra le righe. Preferiamo invece goderci appieno questo piccolo film, coraggioso e fatto con il cuore: i Manetti Bros guardano all’industria italiana e si fanno una grassa risata, tenendosi lontani dalle altezzosità e ribadendo la natura artigianale del loro cinema. Un film che non va sopravvalutato, ma che merita pienamente tutto il rispetto possibile

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Con L’arrivo di Wang i fratelli Manetti intraprendono la strada rischiosa della fantascienza all’italiana, genere completamente ignorato dal cinema nostrano e, tranne qualche eccezione, pressoché inesistente sugli schermi almeno dagli anni Ottanta. Coerentemente con la loro produzione, il film si dimostra un oggetto completamente anomalo e fuori dagli schemi, nonché un bersaglio fin troppo facile per chi ha già deciso di parlarne male a priori; una pellicola chiusa in uno spazio ristretto quasi quanto il precedente Piano 17, fedelmente ancorata alle coordinate di un cinema orgogliosamente di genere che non abbassa la testa dinanzi a nulla: allo stesso tempo naturalmente il coraggio e l’intraprendenza non bastano di certo a giustificare la riuscita dell’intero progetto, che non riesce a mascherare fino in fondo i propri limiti strutturali ma che sorprendentemente si dimostra comunque capace di aprirsi verso panorami inattesi che non possono che farci piacere. L’arrivo di Wang è la storia di un alieno giunto sulla terra per uno scambio culturale con la razza umana e rifugiatosi nell’appartamento di un’immigrata di colore, nei pressi di San Pietro: catturato dai Servizi Segreti italiani, viene sottoposto a un pesante interrogatorio coadiuvato accidentalmente da una giovane interprete, l’unica in grado di provare compassione e tenerezza nei suoi confronti. L'Italia non è (più) il luogo dell'accoglienza civile, si sa, e siamo riusciti a insegnare il razzismo persino agli extracomunitari: sin da subito i Manetti giocano a carte scoperte, grazie a quella brillante idea di sceneggiatura secondo la quale Wang ha imparato solamente la lingua cinese perché è la più parlata del pianeta, rendendosi subito conto di aver commesso un errore. Senza mai prendersi sul serio e senza mai salire in cattedra, il loro film abbraccia platealmente un ideale antirazzista di solidarietà che commuove e sconcerta per sincerità e bontà d’animo: si può discutere a lungo delle enormi carenze di scrittura (i Servizi Segreti non hanno un interprete che conosca il cinese?), degli effetti speciali del finale – volutamente? – di basso livello, di un Ennio Fantastichini sempre sopra le righe, e così via. Ma così facendo si perderebbe di vista l’obiettivo principale: godersi un piccolo film fatto col cuore, lontano dalle altezzosità e consapevolmente “povero”; un film che guarda in faccia l’industria italiana e si fa una grassa risata,  che gioca con lo spettatore e che nel finale si permette un ribaltamento del punto di vista che è uno sberleffo bello e buono alle convenzioni e alle false idee politicamente corrette. Non un bel film, sia chiaro: un piccolo film, che ci ricorda che a volte restare con i piedi per terra è un bene. E che il vero cinema nocivo (italiano e non), quello dal quale salvaguardarsi sul serio, proviene da altrove, spesso da dove meno lo si aspetta.

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