VENEZIA 68 – "Cisne", di Teresa Villaverde (Orizzonti)

CISNE - Teresa Villaverde “Non aver paura di lanciarsi dalla cima di una montagna", così la regista portoghese definisce il sentimento che ha ispirato il film, e così il suo cigno che apre le ali obbedisce all’impulso di chi impara che bisogna rischiare tutto per catturare almeno una preziosa scintilla di libertà. Non c’è garanzia di redenzione o salvezza, ma forse, per la prima volta nel cinema della Villaverde, la possibilità di un’isola

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CISNE - Teresa VillaverdeCisne racconta la paura (di non essere riconosciuti, di non saper accettare la solitudine quando è necessaria). Ma Vera, un fascio luminoso che attrae e respinge, conosce il segreto: 5000 lettere “non sull’amore, ma proprio d’amore” non bastano, bisogna fare il passo nel vuoto e mettersi completamente a nudo. Scommettere bisogna come in Pascal, solo che invece di quel dio, si tratta della libertà di amare, permettersi di perdere se stessi senza per questo scomparire.

All’ultima battuta di una una tournée di successo, tra applausi e fiori e stanze d’albergo con letti troppo spaziosi, la cantante Vera sente che la sua arte non la proteggerà (l’arte protegge solo i folli, e io non lo sono abbastanza”) e che Sam, l’uomo che ama, è inafferrabile (il pittore Israel Pimenta, per la prima volta attore (di grande fisicità, si muove nel film con assoluta sicurezza, come nelle bellissime scene con la vicina). Vera accetta una proposta apparentemente irrazionale: vivere per un po’nella casa di lei, tra le sue cose, ma senza di lei. Lo vediamo sfiorare il suo archetto come una pistola in un western, e vediamo lo strumento, sentiamo perfino la musica: ma non lo vediamo mai suonare. Anche lui cerca la sua strada.
La Villaverde lavora con due nomi di sempre: il direttore della fotografia Acácio de Almeida e il montatore Andrée Davanture, usa la splendida colonna sonora, che mescola John Cage, Caetano Veloso, Dmitri Shostakovich e Chico Buarquen, come un controcanto che sfuma nei volti degli attori. In Beatriz Batarda, attrice di teatro e cinema (João Canio, Manoel de Oliveira) trova un viso che sa essere puro e insieme vissuto, e trasmettere intensamente le asperità e la fragilità di Vera equilibrista improvvisata, una che sa benissimo di essere su un filo troppo in alto. L'unico modo di vivere è giocarsi ogni possibilità: il suo occhio che sanguina – con ironia, le accade quando è troppo felice – scende ad accarezzare Paul (il dolce Miguel Nunes, al lavoro con un altro regista portoghese che non conosce la parola “paura”: Alberto Seixas Santos, e a breve con Joao Pedro Rodrigues in un corto muto). Il rapporto tra la cantante e il suo giovane autista è fiducioso subito, e in qualche modo paritario: Paul, abbandonato dalla madre da piccolo, più che cercare in lei banalmente una nuova madre si sente spinto a proteggere Vera “mi sembri ancora più smarrita di me". E con Vera, protegge anche un ragazzino, forse perché in passato ha conosciuto la durezza della sua esistenza. Arriverà il momento della violenza restituita alla violenza, con il bambino che si sottrae all’ennesima umiliazione sporcandosi lui stesso le mani di sangue: Cisne parla ancora di sopravvivenza e della capacità di resilienza dell’infanzia (l’incipit con la pernice nelle mani del bambino, che dopo una CISNE - Teresa Villaverdefucilata in volo è ancora viva, e altri momenti dove lo straordinario splendore figurativo non consola rispetto alla durezza dei fatti) come già in A Idade Maior, Três Irmãos e soprattutto nel capolavoro Os Mutantes.
I bambini camminano sui carboni ardenti se devono, è una scelta forzata. Ma questa volta un’adulta, stabile forse dal solo punto di vista economico, cambia il corso della storia e con un gesto di generosità istintivo e gratuito recupera un margine di sopravvivenza emotiva per se stessa. Forse solo così può essere una decisione irrevocabile: istintiva e gratuita, e forse per la prima volta nel cinema della Villaverde ci imbattiamo in una faccia del bene. Vera, che dice di amare la notte e le persone che non dormono, ma in realtà soffre dell'insonnia di chi non viene saziato, finalmente può assaggiare un principio di sonno, e non più il sonno degli estenuati che arriva per sfinimento. La stupenda scena finale della siesta, che ci sprofonda nel silenzio di alcuni rari pomeriggi di pace, è il riposo che non si osa invocare nella frenesia dei giorni. Non c'è garanzia di redenzione o salvezza, ma intanto, un atterraggio.

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