"Student Services", di Emmanuelle Bercot


Da libro-verità a film-per-la-tv, il passo si sa è breve. Schiacciato sotto il tallone del sociologismo, Student Services si appiattisce da subito in una rigida forma di film a tesi. Mai abbastanza duro, mai davvero sgradevole, il lavoro di Emmanuelle Bercot sembra anzi, a tratti, ricercare un'ambigua complicità nello spettatore-maschio, coinvolto nella contemplazione voyeuristica del corpo sacrificale di Déborah François

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Déborah François e Alain Cauchi in Student Services"Filmare il corpo di un affamato per i media significa filmare un corpo muto […]. Le telecamere televisive non vogliono che questi corpi parlino, esistano come qualcosa di diverso dalla materia biologica offerta al sacrificio […]. Filmare un essere umano che non sia una vittima, che non sia ridotto a supporto vivente di una sofferenza, che rifiuta di essere oggetto di pietà, filmare questo essere è diventato un atto di resistenza cinematografica contro il disprezzo dell’uomo che si regge sulla pietà morbosa di questa estetica sacrificale".
– Luc Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, ISBN Edizioni, Milano 2009

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Abbondantemente esposto tra le immagini di Student Services, il corpo dardenniano di Déborah François (L'enfant) attiva le connessioni dell'immaginario, inducendo i nostri occhi a sovrapporre sullo schermo le amate immagini dei due cineasti belgi. Ma così facendo dischiude impietoso l'abisso estetico/etico che separa queste da quelle: quanta distanza tra il corpo levigato e remissivo, morbidamente adagiato davanti al nostro sguardo, della studentessa Laura, e quelli sgraziati e riottosi, mai domi, in guerra perenne con la mdp – quasi volessero sfuggire all'inquadratura – di Rosetta o di Lorna
Da libro-verità a film-per-la-tv, il passo si sa è breve. Nel 2008, a firma Laura D, uscì in Francia Mes chères études, diario di una 19enne che raccontava la sua esperienza di studentessa universitaria finita nel giro della prostituzione per mantenersi agli studi. Destò un certo scalpore, da qui il tv-movie di Emmanuelle Bercot per Canal Plus, che ora ha ottenuto la distribuzione in sala.
Schiacciato sotto il tallone del sociologismo, Student Services si appiattisce da subito in una rigida forma di film a tesi (in regime di neoliberismo spinto il corpo è una merce come un'altra – ma guarda un po'!), di quelli già pronti per il dibattito in studio. Di inesorabile prevedibilità, procede come su un piano inclinato verso il finale di umiliazione estrema e infine salvezza. In fin dei conti rassicurante. Mai abbastanza duro, mai davvero sgradevole (non inganni il puritano v.m. 18 imposto nelle sale italiane), il lavoro della Bercot sembra anzi, a tratti, ricercare un'ambigua complicità nello spettatore-maschio, coinvolto nella contemplazione voyeuristica del corpo sacrificale della protagonista. Blonde Redhead, The Third Eye Foundation e Soap&Skin in colonna sonora, fotografia desaturata e ricattatorio sguardo in macchina finale di Laura/Déborah puntellano un film allo stesso tempo grezzo e ruffiano.

Titolo originale: Mes chères études
Regia: Emmanuelle Bercot
Interpreti: Déborah François, Alain Cauchi, Mathieu Demy, Benjamin Siksou, Anna Sigalevitch, Joseph Braconnier, Marc Chapiteau, Pascal Bongard
Distribuzione: Bolero Film
Durata: 107'
Origine: Francia, 2010

 

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    9 commenti

    • Non sono d'accordo: lo sguardo finale della ragazza è tutto fuorché salvezza, e non è neanche vero che non sia sgradevole: dopo una prima parte effettivamente un po' ruffiana dal punto di vista stilistico, il film imbocca una strada più essenziale, sempre intimamente concentrata sul corpo e l'anima della protagonista. E certi amplessi da maschio mi hanno abbastanza infastidito, forse sapendo che era praticametne una ragazzina. A meno che non si voglia la finta trasgressione della Breillat, allora…

    • caro Giulio, ti faccio notare che in un film con ovviamente molti rapporti sessuali, il corpo (bello e remissivo, "da contemplazione") di Laura è praticamente l'unico a essere mostrato, mancando del tutto o quasi i corpi nudi dei suoi partner (così, a memoria, mi sembra di ricordarne uno solo). Da qui, anche, nasce la mia considerazione circa l'ambiguità della Bercot, che – a me pare – cerca la complicità dello spettatore maschio per poi punirne il voyeurismo con lo sguardo in macchina finale.

    • Quanto, ancora, allo sguardo in macchina, sappiamo bene quanta forza possa avere l'interpellazione diretta dello spettatore, per la sua capacità di interrompere l'impressione di realtà e destabilizzare l'esperienza della visione. Inserirlo, come fa la Bercot, all'interno della messa in scena (assai grezza e stereotipata, ne converrai) di un programma televisivo (in cui avviene al sua confessione), che già di per sé rappresenta un "uscire dal film", non fa che disinnescare la possibile detonazione. Privato così del potenziale eversivo, dello sguardo in macchina rimane solo l'espediente furbetto da "cinema d'autore". Ecco perché, in fondo, rassicurante. Televisivo.
      Saluti.

    • mmm…io ne ricordo ben più di uno, c'è il ciccione, i due del 'locale' che si spogliano…corpi vecchi e flaccidi. Certo non c'è mai la visione dei genitali – neanche femminili espliciti però – ma credo non fosse necessario: ad un certo punto sta tutto nella successione monotona e nell'ambiguità che permea i personaggi, la sgradevolezza 'sottile', non smaccata del film. La stessa protagonista è ambigua: lo fa solo per necessità o anche per soddisfare i beni consumistici tipo SPOILER la casa con terrazza del finale FINE SPOILER? La regista, opportunamente non risolve, ed ecco che quello sguardo mi sembra meno scontato e aperto a più significati. Non che lo ritenga un capolavoro il film, e il dibattito sociologico era inevitabile, bastava il tema prima ancora che il linguaggio a scatenarlo, ma trovo che il film abbia delle piccole sottigliezze che un film tv raramente ha, e che è difficile riassumere in un commento. Te lo immagini qui in Italia una cosa così? …

    • Grazie comunque per il mini dibattito 🙂

      Alla prossima

    • E allora forse – passami la battuta – il (mio) problema è stato di non averlo visto su uno schermo piccolo! 😉
      Grazie a TE per il dibattito. Saluti.

    • Non l'ho trovato né grezzo, né ruffiano. Ciò che viene definito "grezzo" è (nella mia lettura) "realistico" nel modo più coerente e audace possibile. Ben lungi dal voler fare del "feuilleton" o dal cercare "complicità maschile", la Bercot sbatte in faccia allo spettatore un fenomeno "della porta accanto" che ci si ostina a non vedere, per non sembrare voyeuristi o perché troppo ostico da accettare. Ben detto circa il corpo "sacrificale": il termine riassume la sofferenza, la sopportazione e la caparbietà della protagonista. Il film è duro e sgradevolissimo, sempre che si abbia la sensibilità di mettersi nei panni di Laura. Quanto all'ammiccare agli spettatori maschi, bisognerebbe interpellare anche il mio fidanzato, uscito attonito dalla sala. Nemmeno del resto del genere maschile ho così scarsa stima. Gli si fa ingiustizia, ritenendolo una genìa di maiali eccitabili dallo spettacolo di un calvario. Il finale non è con …

    • …solatorio, ma aperto: rimane il dubbio sull'effettiva salvezza di Laura. Lei mantiene il silenzio; nel frattempo, telefona ancora a Joe e vive con due ragazze che fanno la vita. L'unica certezza è il suo volto, che decide di uscire dall'ombra.

    • condivido la sensazione che il film sia un'occasione sprecata, e in qualche modo disonesto, come sleeping beauty di julia leigh. la colonna sonora è accattivante e invasiva, i personaggi sono bidimensionali, la descrizione dei clienti è all'acqua di rose, non c'è traccia di audacia o di radicalità