“Cosa piove dal cielo?”, di Sebastian Borensztein

un cuento chino
Sebastian Borensztein non è probabilmente Daniel Burman, per cui
l'identità non può essere ritrovata auspicando un ritorno alle origini, alla personalità di un Paese meticcio, idealizzando e mitizzando con nostalgia e sentimentalismi il passato utopico, ma è sicuramente un autore interessante, soprattutto nell’intenzione di rifondere in una cifra consolidata sud americana, di comicità e disperazione, elegia e satira, denuncia e paradosso. Arriva in sala il vincitore del Festival di Roma 2011
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un cuento chinoRoberto (Ricardo Darín, tra i più famosi attori argentini), introverso proprietario di un negozio di ferramenta a Buenos Aires, vive da diversi anni quasi senza contatti col mondo dopo un dramma che l’ha profondamente segnato. Ha perso la madre alla nascita e il padre a 19 anni, l’anno in cui partì per la guerra contro l’Inghilterra. Per caso conosce Jun, un cinese appena arrivato in Argentina senza conoscere una parola di spagnolo, in cerca dell’unico parente ancora vivo, uno zio. Incapace di abbandonarlo, Roberto lo accoglie in casa: attraverso la loro singolare convivenza, troverà la strada per risolvere la sua grande solitudine, segnata da una singolare ossessione: collezionare le notizie più incredibili e stravaganti provenienti da tutto il mondo, come quella storia cinese, in cui una mucca caduta dal cielo, precipita su una donna in barca con il fidanzato, pronto a chiederle la mano e a consegnarle l’anello che sugelli la loro unione.

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Al terzo lungometraggio, il regista argentino, che negli anni ’80 ha iniziato la carriera come autore di spot pubblicitari e dei testi per il padre Tato Bores, uno dei più celebri attori comici argentini, è sicuramente attratto da una linea narrativa da commedia nostalgica, prediligendo un apparato visivo volutamente anacronistico, del passato, capace di fermare il tempo, congelarlo, magari metterlo in contrasto con il mondo circostante. Il protagonista controlla quotidianamente che le forniture dei rappresentanti per la sua attività siano sempre giuste, guida una Fiat 1500 verde e le uniche uscite che si concede è andare al cimitero sulla tomba dei propri genitori o sostare ore intere ai bordi dell’aeroporto ad osservare gli aerei decollare e atterrare. Nel rendere tutto fondamentalmente piacevole e spassoso, contribuiscono sicuramente le interpretazioni dei protagonisti, sempre all’altezza della situazione, capaci di non strafare e regalare una forte umanità ai personaggi. Al di là delle implicazioni sociali, particolarmente evidenti dell’opera, Sebastian Borensztein imprime una cadenza ben calibrata alla sua storia, senza concedersi particolari derive visive e narrative, ma procedendo con un passo lieve e spensierato, verso un racconto intriso di cromatismi retrò e una visione del cinema dalle sfumature tenui. Si concede solo un paio di macchinazioni espressive, quando rievoca la guerra tra Argentina e Inghilterra e mostra alcuni eventi straordinari della collezione di Roberto, ricostruiti nella propria testa.

Sebastian Borensztein non è probabilmente Daniel Burman,  per cui l'identità non può essere ritrovata auspicando un ritorno alle origini, alla personalità di un Paese meticcio, idealizzando e mitizzando con nostalgia e sentimentalismi il passato utopico. Sebastian Borensztein non è forse neanche Alejandro Agresti, capace di piccoli poemi sulla solitudine, in bilico tra realtà e immaginazione, ma è sicuramente un autore interessante, soprattutto nell’intenzione di rifondere in una cifra consolidata sud americana, di comicità e disperazione, elegia e satira, denuncia e paradosso.  

Titolo originale: Un cuento Chino
Regia: Sebastian Borensztein
Interpreti: Ricardo Darín, Ignacio Huang
Distribuzione:
 Archibald
Durata: 93'
Origine: Spagna, 2011



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