“Hunger Games”, di Gary Ross

hunger gamesIn Battle Royale, questo sì vero capolavoro sull’orrore del percorso di formazione adolescenziale in una società organizzata su un modello repressivo e conformistico, Kitano diceva ai suoi alunni che la vita è un gioco e che l’unico modo per sopravvivere è combattere. Ed è proprio qui che si trova il centro nevralgico del film di Ross, con le sue linee spezzate e nervose che ricalcano l’irrequietezza di una Jennifer Lawrence armata di arco e frecce che si scopre essere nient’altro che pedina di una scacchiera dove le regole del gioco di qualcun altro si sono sostituite alla vita, forse per sempre

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hunger gamesIn fondo la nazione di Panem, l’America del futuro divisa in 12 poverissimi distretti oppressi dallo strapotere del Campidoglio e dalla dittatura del culto dello spettacolo che impone ad ogni ghetto la Mietitura, ovvero la partecipazione annuale di un ragazzo e di una ragazza allo show di morte trasmesso in ogni dove, non è poi così lontana dal mondo culturalmente schiavizzato dal potere mediatico de L’implacabile. Come in Hunger Games, quella raccontata da Glaser era un’America post-apocalittica dove, a partire da L’uomo in fuga di Stephen King, Arnold Schwarzenneger si era opposto, muscoli e cuore, alla televisione come novello oppio dei popoli. E, ancora, il monito “vedere per credere” a far salvaguardia del futuro sembra essere lo stesso in entrambi i film, anche se poi il primo capitolo cinematografico della fortunata trilogia nata dalla penna di Suzanne Collins lascia ben presto per strada la dimensione più strettamente politica, propria invece del L’implacabile. Forse per la paura di tediare il pubblico di young adults al quale principalmente si rivolge, Gary Ross si accontenta infatti di un assai sbrigativo parallelismo tra l’apparato di propaganda nazista e quello del Campidoglio, con le sue imponenti linee architettoniche erette a simbolo di potere, e di un abbozzo di riflessione, ben presto liquidato, così come l’atto di rivolta che per un attimo accende il film, sulla ingiusta dominazione che il ricco centro, stancamente ricalcato sulle iperboli immaginifiche di Terry Gilliam, esercita sugli sfortunati distretti, assai simili invece alle immagini della Grande Depressione già mostrate da Ross in Seabiscuit.

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hunger gamesCerto, dal 1987 ad oggi le meraviglie della tecnologia hanno fatto balzi da gigante. Per rendersene conto basta mettere a confronto le trovate ideate dietro ai banchi della regia televisiva de L’implacabile (dove, comunque, la riflessione sul Cinema e sul montaggio come “metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore”, volendo usare le parole di William Dieterle, ha una coerenza teorica che manca invece al film di Gary Ross), con quello che è un vero e proprio laboratorio futuristico, figlio di The Truman Show, di mondi finzionali “condotti” da Stanley Tucci e creati da un demiurgo, l’evento mediatico come unico modo di pensare e sentire il mondo, che non aspira più solo a riprodurre il reale o a interpretarlo, ma si fa vero e proprio strumento di controllo esistenziale. E infatti, ancor prima di entrare nell’arena degli Hunger Games, la Katniss di Jennifer Lawrence, se possibile ancora più spigolosa e fragile di Un gelido inverno, sa già che deve asservirsi, non tanto fisicamente, quanto e soprattutto sentimentalmente, alla vocazione manipolatoria dell’industria dello spettacolo, pena l’eliminazione e dunque la morte.

In Battle Royale, questo sì vero capolavoro senza compromessi sull’orrore del percorso di formazione adolescenziale in una società organizzata su un modello repressivo e conformistico, prima di mandarli al macello, Kitano diceva ai suoi alunni che la vita è un gioco e che per sopravvivere bisogna combattere. Ed è qui che si trova il centro nevralgico di Hunger Games, con le sue linee spezzate e nervose e le sue improvvise sospensioni che hanno tutto l’aspetto dell’irrequietezza propria di hunger gamesuna giovane eroina, armata di arco e frecce, che si scopre essere nient’altro che pedina di una scacchiera dove le regole del gioco, un gioco che non è mai quello di Katniss, si sono sostituite alla vita, forse per sempre. Difatti, uscita vittoriosa insieme al compagno Josh Hutcherson dal campo di battaglia della sua formazione, Jennifer Lawrence, proprio come era già accaduto al suo mentore Woody Harrelson, sembra essere ancora assai lontana dalla salvezza (senza contare poi che Hunger Games è solo il primo capitolo di una trilogia…). Eppure è proprio davanti alla tensione irrisolta tra il desiderio di essere corpo (del Cinema) e l’imposizione mediatica di farsi proiezione fittizia e addomesticata di un corpo immaginato da qualcun altro che Hunger Games finisce per fare un passo indietro, riparando in territori meno scivolosi e più appaganti al botteghino. Quasi avesse già gettato la spugna nella death race (Corman e Bartel avevano già previsto tutto nel 1975) che Hollywood si sta giocando contro la minacciosa avanzata dello strapotere delle produzioni televisive, Gary Ross, a differenza di Zack Snyder e Sucker Punch, non crede a un Cinema che "racconta se stesso come unico mondo possibile”. A sopravvivere sono i Frankenstein di David Carradine o le Baby Doll lobotomizzate di Emily Browning, anche se Gary Ross ancora non lo sa.

Titolo originale: The Hunger Games
Regia: Gary Ross
Interpreti: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Elizabeth Banks, Woody Harrelson, Stanley Tucci, Donald Sutherland, Lenny Kravitz, Willow Shields, Wes Bentley, Toby Jones
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 142’
Origine: USA, 2012

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