"Sister", di Ursula Meier

Sister di Ursula Meier
La coerenza di sguardo di Ursula Meier è tale che Sister appare l’inevitabile corollario del discorso avviato con il film d’esordio Home. Ma anche se restano alcuni limiti intrinseci di un cinema "a tesi", Sister si rivela un film più libero del precedente, in grado di superare l'impasse ideologica per scoprire i propri personaggi cogliendo nei volti quasi immobili di Kacey Mottet Scott e Léa Seydoux improvvisi guizzi emotivi, e affidandosi proprio all'istintività dei suoi interpreti per ritrovare un'umanità finora a sospetto di artificio

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Sister di Ursula MeierC’è una tale coerenza di sguardo nell’opera seconda di Ursula Meier che Sister appare l’inevitabile corollario del discorso avviato col suo film d’esordio del 2008, mostrando però un incoraggiante superamento di quel programmatico controllo del proprio materiale che era probabilmente l’unica pecca dell’interessante Home.

Qui come allora permangono infatti alcuni dei limiti intrinseci di un cinema a tesi che si prefigge, sia pure attraverso storie paradossali e surreali, una critica politica e sociale, rappresentata dall’emarginazione letterale e simbolica di queste famiglie disfunzionali, che la regista inserisce in non-luoghi (l’autostrada di Home) o in contesti spaziali conflittuali, come la dialettica alto-basso di Sister. 

 

Il lavoro sulle immagini, soprattutto sui luoghi narrativizzati che definiscono i protagonisti creando assonanze o contrappunti emotivi – che si conferma sinora il tratto distintivo della Meier – permette al film di superare l’impasse dell’approccio ideologico e abbandonarsi invece a una progressiva scoperta dei propri personaggi, seguendoli nei loro rituali, nella continua ascesa dalla valle schiacciata dai massicci incombenti ai “piani alti” dei lussuosi hotel da settimana bianca, con una macchina da presa attenta a cogliere nei volti quasi immobili di Kacey Mottet Scott e Léa Seydoux gli improvvisi guizzi emotivi, rabbiosi e potenti, che contraddistinguono in particolare (non lo si scopre oggi…) la recitazione di questa magnifica interprete, capace, col suo volto da aliena, di gettare una luce diversa su ogni storia raccontata.

Sister Léa Seydoux e kacey Mottet Scott

 

È anche in virtù di queste scelte di casting che Sister si rivela un film più libero del precedente, perché se la Meier è un’autrice cui non si può certo rimproverare di non amare i suoi personaggi – in Home riusciva a rendere dolcemente materna e fragile l’algida Huppert – qui ritrova il piccolo e irrequieto Julien dell’opera prima per incarnare il suo enfant d’en haut, adulto e bambino al tempo stesso, in grado di attivare con la sua ribellione infantile echi truffautiani e non solo, dialogando a distanza anche col bellissimo Sweet Sisxteen di Ken Loach, qui chiamato in causa dal protagonista ormai cresciuto, Martin Compston, non a caso uno dei film più istintivi del regista inglese.

 

Affidandosi alla freschezza, all’impulsività dei suoi interpreti il cinema della Meier smussa l’eccesso strutturale guadagnando un’umanità finora a sospetto di artificio: lì dove Home abbandonava i personaggi con un carrello all’indietro, allontanandosi dai volti per lasciare campo al movimento di macchina, L’enfant d’en haut si congeda (e si congela) sugli sguardi dolorosi ed esterrefatti dei due protagonisti, con un’attenzione finalmente rivolta non più al disegno d’insieme ma alle storie e alle emozioni che dovrebbero restare l'obiettivo primario del fare cinema.

 

Titolo originale: L'enfant d'en haut
Regia:
 Ursula Meier
Interpreti: Kacey Mottet Scott, Léa Seydoux, Martin Compston, Gillian Anderson, Jean-François Stévenin
Origine: Francia 2012
Distribuzione: Teodora Film e Spazio Cinema
Durata: 97'

 

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