“I tre marmittoni”, di Peter e Bobby Farrelly


Quasi un film-testamento, una sorta di resa dei conti definitiva con la società dello spettacolo, un sabotaggio che non rinuncia alle cattiverie scorrettissime di sempre ma opera soprattutto un instancabile scardinamento della contemporaneità attraverso le armi di un cinema gloriosamente fuori tempo, d'accatto e dunque d'attacco, continuamente sbagliato

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"Ingenuus è parola latina che dice «nativo», «originario», «naturale», «libero». […] Se questo è il senso della parola, trattenersi sull'ingenuità del corpo significa incontrarlo nella sua condizione originaria, affrancato dall'equivalenza in cui si esprime ogni codice con l'ordine delle sue iscrizioni; significa restituirlo alla sua forma nativa… […] Il deterioramento della parola è il sintomo di una perdita, la perdita di una primitiva innocenza che lo sviluppo della ragione, ruotando su se stessa nel più iperbolico dei circoli viziosi, finisce col tradire, smascherando il vuoto che la sottende per aver obliato al mondo della vita che, prima di ospitare formule e idee, ospita corpi e cose."
Umberto Galimberti, Il Corpo

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Non è certo il film che sarebbe potuto essere con il trio che i Farrelly avevano in mente per riportare in vita i tre Stooges nel 2012, ovvero Sean Penn, Benicio Del Toro e Jim Carrey, sostituiti poi da tre caratteristi del piccolo schermo USA come Will Sasso, Sean Hayes e Chris Diamantopoulos, però I tre marmittoni va a segno comunque come uno dei progetti più personali e naif dei due fratelli cineasti almeno dai tempi del mezzo-cartoon di Osmosis Jones.
Come in quel caso, l'allontanamento dalle tematiche “romantiche” su cui i Farrelly sono soliti costruire le loro umanissime scorribande nel violento nonsense dei sentimenti, permette di mettere in luce l'assoluta urgenza politica del cinema di cui sono fautori: I tre marmittoni è un film, al solito, di lucidità estrema, che ripensa ancora una volta il cinema come luogo deputato dello scontro tra la pesantezza delle cose e la leggerezza dei corpi – una comica, com'è chiaro che sia, dove la velocità è sempre alterata, e la messinscena puntualmente inceppata, mandata a gambe all'aria.

Potrebbe, addirittura, avere quasi il senso di un film-testamento, questo, una sorta di resa dei conti definitiva con la società dello spettacolo, un sabotaggio che non rinuncia alle cattiverie scorrettissime di sempre (la gag con il delfino strozzato, quella – superba – della battaglia di pipì con i neonati come arma…) ma opera soprattutto un instancabile scardinamento della contemporaneità attraverso le armi di un cinema gloriosamente fuori tempo, d'accatto e dunque d'attacco, continuamente sbagliato (a chi potrà mai rivolgersi un'operazione di recupero di questa comicità?), da questo punto di vista non dissimile dal travestitismo grossolano di Adam Sandler nel capitale Jack & Jill, o dal pamphlet militante che era il Tropic Thunder dell'amico Ben Stiller (o ancora, più indietro nel tempo, da alcune ultime regie metacinematografiche di Jerry Lewis).
Perché anche qui siamo dalle parti dell'apologo, nemmeno troppo mascherato – anzi esplicitamente dichiarato dalla coda con gli pseudo-Farrelly in scena, e la loro lezione sul cinema di gomma e degli effetti sonori cartooneschi (Hazanavicius e Dujardin prendano appunti): ci vuole esercizio, per essere in grado di fingere di voler accecare qualcuno con le dita, senza colpirlo sul serio (mirate alle sopracciglia).

In quest'ottica (o in quest'orbita) la sequenza più bella del film è quella, sublime, in cui i tre attori replicano fedelmente uno degli sketch tutto sganascioni e pedate sul sedere degli Stooges originali in quello che sembra il palco in rovina di un magazzino abbandonato, buio e dismesso, pieno di attrezzi e cianfrusaglie ammassate (un rimando, forse inconsapevole, a Che vita da cani! di Mel Brooks il cui clamoroso Silent Movie è forse una delle ispirazioni del film?) – nell'oscurità però si cela il pubblico che applaude, e subito sceglie il marmittone Moe come nuovo concorrente in un reality show di culto di Mtv.
Freak tra i freaks, Moe non esita da subito a coinvolgere le star di Jersey Shore nelle sue scenette ultraviolente e autodistruttive (il palestrato Ronnie finisce addirittura con la testa che frigge infilata dentro a un microonde), e i Farrelly centrano un nuovo bersaglio di questa loro folle, smisurata dichiarazione di guerra (Matteo Garrone prenda appunti).
Come i due fratelli cineasti sanno bene sin dai tempi di Scemo e + Scemo, e come insegna da sempre John Landis (qui tirato in ballo più volte – orfanotrofio da salvare, gag di pantagruelica voracità in buffet d'alta società, addirittura una versione blues del tema di Perry Mason che proviene dritta dalla soundtrack di Blues Brothers 2000), il cinema appartiene agli ingenui.

Titolo originale: The Three Stooges
Regia: Peter Farrelly, Bobby Farrelly
Interpreti: Chris Diamantopoulos, Sean Hayes, Wil Sasso, Jane Lynch, Sofia Vergara, Larry David, Jennifer Hudson
Origine: Usa, 2012
Distribuzione: Fox
Durata: 92'

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