"La meglio gioventù", di Marco Tullio Giordana

Nell'opera non si arriva davvero mai a stagliare i corpi filmati in una regione immaginativa a ridosso della Storia, per filmarne invece l'emersione con costanti meccaniche e ripetitive che chiudono il set, trincerandolo in un andirivieni di montaggi ora documentaristici, ora finzionali, ispirati all'idea di un cinema ricostruito in vitro.

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La meglio gioventù è il nome di una raccolta di scritti pasoliniani, una titolazione che allude direttamente ad una non meglio precisata età della vita, costituita di un’aggettivazione dal sapore locale, diremmo quasi periferico. Marco Tullio Giordana l’ha presa in prestito, adattandola alla sua ultima opera, una sorta di film fiume lungo circa sei ore, di cui è appena uscita in sala l’esatta metà. Giordana, da sempre assillato dal ripercorrere con il suo cinema un’idea di realtà cristallizzata in forme più o meno chiuse, sempre all’insegna di un ripercorrimento di tracce che portino alla verità di un fatto (questa sostanzialmente la linea strutturale di Pasolini, un delitto italiano e de I cento passi), per certi versi storicizzato, dunque filmabile, anche in questa occasione ha innescato lo stesso processo, con la volontà però di restituirci uno spaccato di vita italiana che parte dagli anni Sessanta per arrivare ai giorni nostri. Una sorta di mosaico dunque, un possibile romanzo di formazione scandito dalle vicende parallele di due fratelli, Nicola e Matteo, l’uno psichiatra l’altro poliziotto. In mezzo, una galleria infinita di personaggi che affiancano i due protagonisti, per dire di una pluralità impazzita di facce/corpi calati in un contesto squarciato da continui sussulti (la stagione inquieta del ’68, il terrorismo, la mafia), sempre in procinto di sfumare l’uno nell’altro, confondendo le proprie linee in un orizzonte mosso ed agitato.

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alessio boni luigi lo cascio la meglio gioventùMuovendosi allora direttamente a ridosso di una storia anche recente (si parla anche dell’omicidio Falcone e di quant’altro abbia scosso l’opinione pubblica negli ultimi quindici anni), Giordana ha riempito la scena di eventi, di situazioni, e di diaframmi attraverso i quali leggere tra le righe, con un tono che da un lato riepiloga lo sguardo dei padri della commedia all’italiana (Risi e Monicelli soprattutto), mentre dall’altro pare quasi voler perseguire un progetto di sintesi che raccolga un’eredità, trasformandola in un soprassalto di avanzamento. Il suo è però un cinema che continua a servirsi di superfici visive assolutamente arretrate (basti pensare soltanto allo spazio privo di vita della sua opera, ai luoghi freddi ed asettici che la punteggiano, all’impossibilità di uscire anche solo per un momento dalla traccia narrativa utilizzata), di affioramenti tipologici dominati da impasse provinciali pronte a connotare subito una sequenza nel modo più superficiale possibile, e soprattutto di scarti tra le stagioni temporali esibite che non si impongono mai quali enti manipolatrici di un certo vissuto (la lezione dello Scola di C’eravamo tanto amati è forse inarrivabile), ma quasi sempre come pretesti “scritti” che traghettano in modo indolore da una frazione all’altra del racconto. Ecco allora come nell’opera non si arrivi davvero mai a stagliare i corpi filmati in una regione immaginativa a ridosso della Storia (l’atto sublime dell’Egoyan di Ararat), per filmarne invece l’emersione con costanti meccaniche e ripetitive (la coazione a ripetere di pubblico e privato non assume mai il carattere di vera necessità), che chiudono il set, trincerandolo in un andirivieni di montaggi ora documentaristici, ora finzionali, ispirati all’idea di un cinema ricostruito in vitro. E poi Giordana, come prima accennato, non fa altro che rimasticare i tipi della vecchia commedia all’italiana (aiutato in questo dalla scrittura smaliziata di Rulli e Petraglia), senza la minima intenzione di dare davvero fiato alla struttura apparentemente epica del racconto (lontano anni luce dalle contaminazioni folli del Bertolucci di Novecento e dalla liquidità nomade e spiazzante dell’Heimat di Reitz), arenandosi invece in una rappresentazione che manca di un oggetto. Non c’è Storia, non c’è Vita.

 

 

Regia: Marco Tullio Giordana
Sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli
Fotografia: Roberto Forza
Montaggio: Roberto Missiroli
Scenografia: Franco Ceraolo
Costumi: Elisabetta Montaldo
Interpreti: Luigi Lo Cascio (Nicola Carati), Adriana Asti (Adriana Carati), Sonia Bergamasco (Giulia Monfalco), Maya Sansa (Mirella Utano), Fabrizio Gifuni (Carlo Tommasi), Alessio Boni (Matteo Carati), Jasmine Trinca (Giorgia Esposti), Camilla Filippi (Sara Carati), Valentina Carnelutti (Francesca Carati), Andrea Tidona (Angelo Carati), Lidia Vitale (Giovanna Carati), Claudio Gioè (Vitale Micavi), Paolo Bonanni (Luigino), Riccardo Scamarcio (Andrea Utano), Giovanni Scifoni (Berto), Stefano Abbati (spacciatore), Roberto Accornero (presidente Tribunale di Torino), Fabio Camilli (Detenuto Tangentopoli), Nila Carnelutti (Francesca Carati a otto anni), Greta Cavuoti (Sara Carati a otto anni), Domenico Centamore (agente Enzo), Gaspare Cucinella (‘Viddanu’), Walter Da Pozzo (Mario), Krum De Nicola (Brigo), Paolo De Vita (Don Vito), Maurizio Di Carmine (terrorista), Francesco La Macchia (Andrea Utano a sei anni)
Produzione: Angelo Barbagallo per BI.BI. FILM, RAI FICTION
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 366′
Origine: Italia, 2003

 

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