31, di Rob Zombie – la recensione in anteprima

Dopo lo scontro vs HGLewis di venerdì, la recensione esclusiva del nuovo Rob Zombie: vittima e carnefice scivolano l’uno nell’altro fino a riconsegnarci l’immagine composita di umano e mostruoso

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31 ottobre 1976. Siamo nel bel mezzo del deserto americano, con la sua radicale indifferenza e cruda immoralità. Una compagnia itinerante di artisti hippies, sballata e volgare proprio come piace a Rob Zombie, è il gruppo prescelto per intrattenere, durante la notte di Halloween, dei ricchi individui nascosti, quasi kubrickianamente, dietro sontuosi abiti settecenteschi e capitanati da Malcom McDowell. Il gioco è semplice. Sopravvivere, per dodici ore tra i labirinti di lamiera di The Murder World, alla furia omicida di clown con la faccia coperta di trucco sgretolato misto a sangue e follia.

rob-zombie-31Girando per la rete non è difficile incontrare una certa delusione di fronte all’ultima fatica di quel regista magnificamente brutale che è Rob Zombie. C’è chi definisce 31 un survival derivativo e terribilmente piccolo, un ritorno alle origini che, passando da The Running Man, si limita a rifare La casa dei 1000 corpi, senza però nulla aggiungere a quell’imprendibile e folgorante film d’esordio. E chi lo etichetta come un oggetto meramente ludico, filtrato attraverso gli occhi di un fanboy appassionato e mai cresciuto, che si diverte a riattraversare, ancora una volta, i paesaggi orrorifici della sua adolescenza. I seventies di Tobe Hooper prima di tutto, di John Carpenter (al diavolo le recenti polemiche), di Wes Craven, richiamati non solo da un leitmotiv narrativo, il gioco al massacro su cui si poggia la trama di 31, fondato proprio negli anni ’70, ma anche da un’estetica volutamente grezza e sgranata come in una pellicola 16 mm, fatta di zoom, fermo immagine e camera a mano. Del resto è stato lo stesso Rob, dopo il disastro al botteghino de Le streghe di Salem, a confessare di aver voluto corteggiare i distributori con un film “più semplice” rispetto alle stratificazioni di quella magnifica ballata psichedelica sul male che è uno dei capolavori dell’horror del nuovo millennio.
Ma è davvero tutto qui?

Forse, sì, è proprio necessaria una seconda visione di questo viaggio sporco e kitsch, sgraziato come il corpo del nano travestito da Hitler che apre la mattanza e grossolano come le frasi urlate da Schizo-Head e Psycho-Head, la coppia di fratelli svitati armati di motosega, per rendersi conto che la posta in gioco, come da sempre ci ha abituato Rob Zombie, è ben più alta.
rob-zombie-31Partiamo dall’ultima magnifica scena di 31, capace di eguagliare per intensità la profondità rovesciata del finale de La casa del diavolo. Come Wurdalak, epilogo denso e visionario che spezza improvvisamente l’architettura gradassa di The Electric Warlock Acid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser, l’ultimo album di Rob Zombie, il finale del film inghiotte nella sua improvvisa sospensione dal sapore quasi malinconico la sua folle giostra infernale. Doom-Head, signore indiscusso del blood-party appena consumatosi con addosso il ghigno macabro di un incredibile Richard Brake, e la Charly di Sheri Moon, rimangono fermi uno di fronte all’altra, con entrambi lo stesso sapore del sangue in bocca, diventando, infine, nelle tinte bruciate e polverose del deserto, l’uno lo specchio dell’altra.
rob-zombie-31La fabbrica dismessa di The Murder World assume, allora, i connotati di un regno della metamorfosi, luogo iniziatico, spazio sospeso tra visibile e invisibile, tra la vita e la morte, dove viene mostrato, in tutta la sua violenza, quello che il pensiero cerca di mantenere nascosto, ovvero la provvisorietà insita nella distinzione tra ciò che è mostruoso e ciò che è umano.You and me, we’re the same”, in 31 i ruoli di vittima e carnefice sono confini mobili che scivolano l’uno nell’altro, il tentativo di carnefici e vittime di competere tra loro per efferatezza la dice lunga a questo proposito. La caccia, d’altronde, si fonda sulla complicità tra preda e cacciatore, definizioni instabili che continuano a scivolare l’una nell’altra, fino a riconsegnarci, in tutta la sua insostenibilità, un’immagine composita di uomo e mostro. Non a caso la maschera indossata da Doom-Head non è affatto quella del clown, come viene dichiarato a chiare lettere già nel portentoso pianosequenza in bianco e nero che precede i titoli di testa, ma l’ombra di distruzione e rigenerazione invertita proiettata rob-zombie-31nel mondo da Nosferatu.

31 ci attira nella stessa trappola in cui cadono Charly e compagni, ci attira al cospetto della gratuità e, dunque, purezza, di un esercizio autoaffermativo, di un gesto feroce, senza alcuna morale né legge, gravido di mitologie pagane, di storie che si raccontavano già prima della Storia e che, ancora oggi, fanno da architrave alla Storia, perché è proprio l’esercizio fine a se stesso del sangue, che Rob Zombie, in una riflessione di non poco conto sull’America, affida all’ultimo e più disprezzato gradino della scala sociale, i white trash, quel sottotesto necessario, l’inconfessabile scintilla vitale di cui si nutre e che mantiene in equilibrio la società.

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