FESTIVAL DI ROMA 2011 – "Une vie meilleure", di Cédric Kahn (Concorso)

Une vie meilleure
Cédric Kahn torna a raccontare un amore spezzato in cui i tormenti privati cedono il passo a un muro di avversità burocratiche che consegnano i protagonisti a due percorsi separati, uno invisibile, l’altro seguito passo per passo con uno sguardo zavattiniano che sorprende dolorosamente per la sua urgenza. Une vie meilleure è al tempo stesso il suo film più disperato e speranzoso, in cui l'autore sembra recuperare una fiducia nell'umanità e una nuova, intensa, capacità emozionale

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Une vie meilleureStupisce Cédric Kahn, firmando forse il suo film più bello, all’interno di una filmografia sempre mobile e inquieta che ha attraversato dramma borghese, polar e mélo, attingendo in egual misura dalla letteratura, con Moravia e Simenon, quanto dalla realtà, col caso paradigmatico del non fiction novel di Roberto Succo.
Ora, a due anni di distanza dall’imperfetto ma affascinante Les Régrets, melodramma ossessivo su un amour fou (auto)distruttivo, torna a raccontare un amore spezzato in cui i tormenti privati cedono il passo a un muro di avversità burocratiche, alla morsa di crediti e mutui che rompono l’idillio iniziale dividendo i due protagonisti e consegnandoli a due percorsi separati, uno invisibile, l’altro seguito passo per passo con uno sguardo zavattiniano che sorprende dolorosamente per la sua urgenza.

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Il legame col neorealismo – di cui i cineasti francesi continuano a rivelarsi (assai più dei nostri…) gli interpreti più sensibili – non ha mai nel film di Kahn il sapore di un omaggio cerebrale e cinefilo, e il pedinamento lungo la periferia parigina di questo padre per caso, un magnifico Guillaume Canet, con spalle larghe abbastanza da sostenere il peso dell’intera storia così come fa con il piccolo Slimane, appare semplicemente l’unico sguardo possibile, un punto di vista etico che fonde con funambolico equilibrio lucidità della denuncia sociale e intensità emotiva del vissuto privato, come già in Welcome di Une vie meilleurePhilippe Lioret e, ancor prima, in La vita sognata degli angeli di Erick Zonca.
L’attraversamento di una Parigi mai così poco attraente, metropoli sbandata dagli edifici fatiscenti subaffittati da criminali dall’aria perbene a famiglie disperate, da parte di Yann e del piccolo Slimane, finisce per somigliare al cammino del Padre e del Figlio di The Road, con un’Europa sempre più arida e sfinita che si fa equivalente quotidiano dello scenario post-apocalittico del film di Hillcoat. Perché se è vero che rispetto alle opere disperate di Zonca e Lioret, Kahn offre ai suoi personaggi un riscatto, almeno prefigurato, l’unico modo per realizzarlo è la fuga verso un orizzonte più lontano, a bordo di un aereo che ci consegna l’unico cielo del film dopo quello del bucolico quadro iniziale in riva al lago.
Une vie meilleure evidenzia nella filmografia di Cedric Kahn uno scarto con il passato, configurandosi allo stesso tempo come il suo film più disperato e speranzoso: rinunciando per la prima volta a un atteggiamento distaccato, ironico, talvolta persino sprezzante verso i suoi personaggi,  l’autore sembra recuperare una fiducia nell’umanità – e nella coppia – totalmente assente in film come Luci nella notte o Les régrets, dotando così il suo cinema di una luce nuova, un’emozione profonda e radicale che affiora pudicamente come nell’abbraccio finale, timido e poi dirompente, tra madre e figlio.

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