FESTIVAL DI ROMA 2011 – “Tyrannosaur”, di Paddy Considine (Focus UK)
Quella di Considine è un’opera assai matura linguisticamente, che si accanisce senza tregua sull’anima, i corpi e i destini dei suoi personaggi, alternando soluzioni ellittiche in fuori campo, a disturbanti rappresentazioni di violenza "in diretta". E in questo racconto esistenziale sull'inferno del mondo di oggi non manca un sospetto di autocompiacimento che vorremmo scacciare senza remore nelle successive prove registiche dell'attore inglese
Iniziamo col dire subito che l’opera prima di Paddy Considine – attore per Shane Meadows, Jim Sheridan, Michael Winterbottom e qui impegnato anche nel ruolo di sceneggiatore – è certamente uno di quei film che difficilmente passano inosservati, carichi di una potenza espressiva e tematica capace di incutere ferite profonde nello spettatore. Del resto Tyrannosaur, a poche settimane dalla sua uscita in sala in Gran Bretagna, non ci ha messo troppo a costruirsi l’aura del film culto, complice anche il successo ottenuto allo scorso Sundance Film Festival con i riconoscimenti a regia, interpretazione maschile e femminile. Sin dalla prima scena il film di Considine si presenta nella sua durezza esplicita, con l’alcolizzato Joseph che colpisce mortalmente il proprio cane, “accompagnato” dal titolo del film su sfondo nero. Quasi un manifesto programmatico delle dinamiche scioccanti e aggressive su cui il film si concentra diegeticamente e sulle quali intende riflettere con notevole ambizione umanistica. Siamo nella periferia di Londra e il vedovo Joseph passa le sue giornate bevendo, senza lavorare e sempre sul punto di esplodere in una violenza incontrollata. L’incontro con la credente Hannah sembra rischiarare il proprio destino, se non fosse che anche la donna vive una vita infelice, sotto la costante minaccia di un marito violento, geloso e sessualmente perverso. Il rapporto tra Hannah e Joseph diventa così la storia (im)possibile di due anime dilaniate ma forse ancora capaci di un riscatto.
Tyrannosaur porta avanti la stessa violenza ruvida e nichilista del Ken Loach più disperato – il riferimento a My name is Joe, vista anche la presenza attoriale di Peter Mullan, è immediato – con echi provenienti
film eccezionale, potentissimo, come non se ne vedevano da tempo.