FESTIVAL DI ROMA 2011 – “The eye of the storm”, di Fred Schepisi (Concorso)

Schepisi dirige questo dramma da camera, riduzione d'un romanzone del premio Nobel australiano (un'edizione, questa del Festival di Roma, zeppa di Nobel…) Patrick White, con l'abituale, compassato, occhialuto mestiere, e quindi ci si rassegna ben presto all'andamento non proprio brioso di queste due ore di scaramucce familiari. Ma l'interpretazione di Judy Davis somiglia tanto allo scatto di reni di una grande attrice desiderosa di rivalsa, e un po' a torto dimenticata

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Fred Schepisi, australiano, classe 1939, è uno di quei cineasti di cui “il nome non mi è nuovo”, e poi scopri d'aver visto in una maniera o in un'altra quasi tutti i suoi film, dall'ottimo Roxanne con Steve Martin a La casa Russia, Sei gradi di separazione, Genio per amore, Creature Selvagge, e il cult assoluto Un grido nella notte con Meryl Streep (“a dingo ate my baby!”).
E' pur vero che Schepisi dirige questo dramma da camera, riduzione d'un romanzone del premio Nobel australiano (un'edizione, questa del Festival di Roma, zeppa di Nobel…) Patrick White, con l'abituale, compassato, occhialuto mestiere (ricordare per credere L'ultimo bicchiere con Michael Caine, o l'ultimo Empire Falls), e quindi ci si rassegna ben presto all'andamento non proprio brioso di queste due ore di scaramucce familiari tra la terribile vecchia Charlotte Rampling, costretta a letto in punto di morte, e i due figli dal complicato rapporto di odio-amore, Geoffrey Rush e Judy Davis. Ma è altrettanto vero che forse altra maniera di rendere la “pesantezza” dell'enorme villa nella campagna australiana dove si svolge il film non c'è, e che in un modo o nell'altro, magari inconsapevolmente, Schepisi sembra guardare per toni e tavolozza dei colori ad alcuni episodi “ingessati” del grande cinema inglese firmati per dire da gente come Lyndsay Anderson o Karel Reisz.
Certo il ritratto dei personaggi della servitù comporta qualche problema ulteriore, e infatti Schepisi non è indenne dal rischio-macchietta, tra l'attempata cuoca tedesca che fa ancora incubi di occupazione nazista (e la sera si esibisce in spigolosi numeri danzanti di cabaret), l'infermiera suora che pensa solo a pregare, e l'assistente popolana che parla sporco e tenta in tutti i modi di sfruttare il più possibile la sua posizione di preferita dalla padrona di casa (e dal di lei figlio…).
Forse il film (e magari lo stile del suo regista) è rappresentato appieno dall'interpretazione di Geoffrey Rush, completamente a proprio agio nel ruolo di un attore di second'ordine immaturo e smidollato, capace di assumere la maschera del raffinato uomo di mondo in ogni occasione per salvarsi dalla sincerità, e ovviamente la Rampling ha su di sé tutti i riflettori dell'operazione, con questo ritratto di donna burbera dalla battuta tagliente e al contempo dal cuore gonfio di rimorsi (c'è un flashback rivelatore, girato da Schepisi con una certa modernità, che ci viene svelato a bocconi, anche qui ricordandoci l'espediente di alcuni capisaldi del post-free cinema britannico “da camera”); ma va sottolineato come la parte più difficile spetti a Judy Davis, che affronta questo personaggio femminile acerbo, antipatico, duro e scostante con un impegno e una spontanea partecipazione che somigliano tanto allo scatto di reni di una grande attrice desiderosa di rivalsa, e un po' a torto dimenticata.
Molto bella la partitura del sassofonista Bradford Marsalis per la colonna sonora, che sembra richiamare in più passaggi uno squisito standard jazz come It never entered my mind.

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