TORINO 29 – "Jeonju digital project 2011", di Jean-Marie Straub, Claire Denis e José Luis Guerin (Festa Mobile – Paesaggio con Figure)


Tre cineasti europei di fama internazionale, finanziati dal Jenjou International Film Festival, realizzano un lungometraggio in digitale. A tenere ben saldi tra loro i tre episodi non interviene soltanto l’utilizzo di uno stesso mezzo tecnico di ripresa, ma anche una importante riflessione sulla relazione tra il racconto orale e l’immagine, e, di conseguenza, sui modi attraverso cui questa relazione prende corpo all’interno del film.

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Il Jeonju Digital Project è stato ideato nell’ambito del Jeonju International Film Festival (un festival cinematografico coreano, tra i più importanti al mondo) nel 2000, e consiste nel proporre – e finanziare – ogni anno a tre cineasti di fama internazionale la realizzazione di un lungometraggio – suddiviso in tre episodi –, “obbligandoli” all’utilizzo della tecnologia digitale. Nel 2011 è stata la volta di tre registi europei: il grande maestro francese Jean-Marie Straub (episodio Un héritier), la connazionale Claire Denis (episodio Aller au diable) e il regista spagnolo José Luis Guerin (episodio Recuerdos de una mañana).

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Provando ad analizzare questo film nella sua totalità – e, aggiungerei, nella sua complessità – ci si accorge che a tenere ben saldi tra loro i tre episodi non interviene soltanto l’utilizzo (ovvio) di uno stesso mezzo tecnico di ripresa (digitale, appunto, come da progetto), ma anche una – più o meno esplicita – riflessione sulla relazione tra il racconto orale (inteso non solo e non sempre in termini narratologici, ma anche nel più ampio senso di “resoconto” o di “testimonianza”) e l’immagine, e, di conseguenza, sui modi attraverso cui questa relazione prende corpo all’interno del film.

Muovendo dall’episodio diretto da Straub, si può infatti tentare di improntare una riflessione che trova il suo punto d’arrivo nell’episodio di Guerin, passando con grande fluidità attraverso quell’operazione – quasi da indagine poliziesca – messa in atto dalla Denis.

Jean-Marie Straub prende le mosse dal romanzo Au service de l’Allemagne di Maurice Barrés, proseguendo sulla traccia di quel confronto tra il testo letterario e il “testo filmico” che ha attraversato tutta la sua carriera, e riprendendo – al contempo – le fila di un “discorso” su Barrés iniziato assieme alla compianta Danièle Huillet nel 1994, anno in cui i due registi realizzarono il loro film Lothringen!, muovendo dal romanzo Colette Baoduche dello scrittore francese.

Un Hèritier si fonda sul costante attrito tra il piano visivo e quello sonoro del film: l’inquadratura è quasi sempre immobile e concepita non come un “campo d’azione”, ma come il luogo che accoglie e spazializza letteralmente il flusso di parole che va a costituire il racconto (di derivazione o di ispirazione letteraria), per mezzo della voce e del corpo dell’attore-performer. Ebbene, è all’interno di questa struttura che diventa interessante la presenza di alcuni piccoli “shock visivi” che Straub inserisce nella parte conclusiva del suo film: dei brevissimi momenti di nero che “spezzano” la continuità dell’immagine (un lungo piano sequenza a camera fissa), che sembrano quasi inghiottirla per un momento, lasciando invece intatta la continuità del dato sonoro. Dei momenti di “assenza” che servono ad attestare una “presenza” forte e indispensabile; ad innescare il nostro desiderio nei confronti dell’immagine – del suo ritorno – e, contemporaneamente, ad evitare un nostro passivo abbandono al flusso del racconto orale.

Di fronte a questa “discontinuità” del long-take, sembra quasi di assistere ad un ribaltamento di quella consuetudine che vedeva nel momento di “nero” la possibilità di fornire una continuità (tecnicamente impossibile) all’inquadratura nella realizzazione di piani-sequenza notevolmente lunghi con la cinepresa tradizionale (si pensi, solo per citare l’esempio più celebre, a Nodo alla gola di Alfred Hitchcock).

Nell’episodio diretto da Claire Denis, invece, lo spazio dell’inquadratura diventa letteralmente un luogo di incontro, non solo tra due culture, ma anche tra un soggetto che rende testimonianza e un soggetto che questa testimonianza accoglie (la regista e, per estensione, lo spettatore). Se ho definito “poliziesca” l’operazione su cui si fonda Aller au diable, è perché la regista si mette letteralmente sulle tracce di Jean Bena, membro della tribù dei Marroon della Guyana francese, un cercatore d’oro preceduto dalla sua cattiva fama. Un ambiguo personaggio nei confronti del quale la Denis sembra però aperta ad accogliere anche alcune ragioni, per bocca del diretto interessato o attraverso i racconti di altri personaggi: alcuni parenti che lo sostengono e che vanno a costituire – nell’economia del film – delle vere e proprie tappe intermedie che consentono alla regista di giungere fino al protagonista.

In questo caso è da evidenziare un interesse “specifico” della Denis nei confronti della tecnologia digitale; un interesse che potremmo definire “kiarostamiano”, in quanto fondato sulla leggerezza del dispositivo di ripresa, che consente di stabilire un rapporto intimo, immediato e poco invasivo col soggetto filmato. Un tipo di relazione che si rivela fondamentale ai fini dell’emersione dell’ “autenticità” del personaggio e della sua testimonianza. Non è un caso, infatti, se si è scelto in ben due occasioni in questo episodio di inquadrare una telecamera digitale, proprio a voler sottolineare un interesse nei confronti dell’oggetto in sé e della sua leggerezza/maneggevolezza (si pensi, a proposito di Abbas Kiarostami, ad un’ operazione simile nel suo documentario ABC Africa).

L’idea del cinema come “punto d’incontro” o di “contatto” interpersonale torna nell’episodio diretto da Guerin, ma lo fa caricandosi di connotati nuovi: innanzitutto perché questo incontro tra il regista (o, ancora una volta per estensione, lo spettatore) e il (defunto) protagonista non può fondarsi su un contatto diretto, ed è dunque “mediato” dalla testimonianza orale dei suoi vicini di casa; ma anche – e soprattutto – perché in questo caso la raccolta di testimonianze orali è nulla più che un pretesto attraverso il quale il regista vuole raggiungere l’unico vero obiettivo del suo film, che è quello di restituire agli occhi dello spettatore l’immagine fortemente suggestiva di un musicista alla finestra, come se si trattasse di un “motivo figurativo” al quale Guerin si sente fortemente ancorato.

Le primissime inquadrature ci indicano già questa intenzione, e ci vengono presentate nella forma di una moltitudine di sguardi soggettivi in successione che, dal palazzo di fronte, sono indirizzati verso il violinista che si esercita alla finestra (quella stessa finestra dalla quale, ci verrà detto, lo stesso uomo si è lanciato per porre fine alla sua vita). Quest’immagine, nel corso del film, tende a moltiplicarsi: pensiamo al chitarrista, ai violoncellisti che si esercitano sul balcone e, soprattutto, al sassofonista che suona (e sembra quasi improvvisare e comporre sul momento) gettando il suo sguardo malinconico oltre i vetri della propria abitazione. Guerin, dunque, gioca a depistarci: finge di fondare il suo film sulla raccolta di testimonianze per lasciarlo poi esplodere, invece, in autentiche visioni, facendo sì che la forza illuminante dell’immagine prevalga sulla ridondanza delle testimonianze orali.

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